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Tame Impala, il nuovo Currents si candida ad essere uno dei migliori album del 2015

Ricco in suoni, atmosfere e altamente ritmico, un album che, pur in continuità con la matrice compositiva di Innerspeaker e Lonerism, segna per Kevin Parker (i Tame Impala sono, almeno in studio, una one man band: il polistrumentista australiano scrive, arrangia, canta e suona tutto) un cambio di passo artistico. Lo scarto determinante è nell'utilizzo di synth e chitarre

di Matteo Poppi

Currents il nuovo album dei Tame Impala, complici i quattro singoli che lo hanno anticipato nonché leak e free streaming lanciato a qualche giorno dalla pubblicazione (non per accessi dall’Italia), è stato battezzato da critica e pubblico uno dei migliori album del 2015.

Currents è davvero un grande album; ricco in suoni, atmosfere e altamente ritmico. Un album che, pur in continuità con la matrice compositiva di Innerspeaker e Lonerism segna per Kevin Parker (i Tame Impala sono, almeno in studio, una one man band: il polistrumentista australiano scrive, arrangia, canta e suona tutto) un cambio di passo artistico. Lo scarto determinante è nell’utilizzo di synth e chitarre: i primi non fanno più da contraltare alle seconde, ma dettano incedere e melodia. Altro elemento: in Currents, Parker rivela tutta la sua bravura di beat maker; basso e batteria acquistano una fluida solidità; ossimoro che fa propria la lezione del funk, iconicamente sintetizzata dalla stessa copertina dell’album.

La traccia di apertura e primo singolo, Let It Happen, mette subito a nudo la trasformazione. Il tema principale è lasciato all’incanto dei synth (che ad orecchie nostrane possono ricordare il primo Battiato) che poggiano su un tappeto di chitarre in odore di funk, alla Get Lucky dei Daft Punk per intenderci. La psichedelia è ancora forte ma il sound rock, quantomeno la gerarchia di strumenti propria del genere, lascia più spazio all’elettronica. Un amalgama di suoni che va oltre quelli sino ad oggi operati tra musica bianca e musica nera. I richiami agli archetipi del funk, della psichedelia, del rock e dell’electro-pop sono talmente fusi che si fatica a dipanarne i singoli nuclei.

Oltre alla bellezza, Let It Happen rimanda a un’atmosfera, ad un motivo già sentito. Indizi praticamente pari a zero: solo il ricordo di un vaghissimo accenno di ritornello e relativo groove. Ho battuto ogni pista, anche le più improbabili, poi ho scoperto e tentato con SoundHound – applicazione che, a differenza di Shazam, riconosce anche le canzoni canticchiate live. Eccola: Beggin, brano del 2007 dei Madcon, duo afro-norvegese. Come possono i Tame Impala richiamare un duo dance pop afro-norvegese? Beggin in realtà è stata scritta e incisa dai The Four Seasons, gruppo pop rock molto in auge tra gli anni 60 e 70. Ecco che la suggestione comincia ad avere un senso e può aiutare a spiegare meglio il sound creato da Parker: Beggin è stata scritta da uno dei primi gruppi del cosidetto blue-eyed soul – termine che indica quei gruppi di bianchi che utilizzano stilemi propri della musica nera –, e virata in chiave dance da un gruppo hip hop afro-norvegese quarant’anni dopo. Let It Happen raccoglie la storia di questa canzone, risolvendone lo scarto culturale e temporale. Parker ha inoltre dichiarato che per creare questo album è stato fulminato sulla via di Damasco dai Bee Gees e dalle sonorità che uscivano dalla storica etichetta Motown: guarda caso, The Four Seasons furono proprio uno dei primi gruppi di bianchi che firmarono per la Motown. Questo non per raccontare un plagio – che non esiste –, ma per tentare di esprimere la capacità di Parker di evocare, sintetizzare e trascendere in un unico brano diversi dei solchi incisi dalla storia della musica.

Let It Happen non è un caso isolato. The Moment ricama new wave, oriente e psichedelia su atmosfere alla Moonlight Shadow di Mike Oldfield; Yes I’m Changing fonde echi da King Crimson a Beatles; con The Less I Know the Better tornano pantaloni a zampa e luci stroboscopiche; Past Life raccoglie onde disturbate e le trasforma in pastosa melopea. Con Cause I’m A Man (brano che ha suscitato qualche polemica per un presunto testo sessista) la tastiera lascia i 70 per abbracciare gli 80. Eventually è una passeggiata tra andate sonore dove i ponti non portano a nulla ma trattengono in una vertigine di reiterata caduta. Fuzz, riverberi, talkbox, delay creano per tutti i cinquanta minuti un’atmosfera un’unica. Più che un album una danza onirica che fa propria la lezione di Marvin Gaye, Parliament ed Outkast. Possiamo anche definirlo PsyElectRockSoul, non importa: fatto è, che pur essendo solo luglio, Currents a meno di mirabolanti sorprese, sarà uno dei migliori album di quest’anno. Unica controindicazione: se non amate i synth statene alla larga, il loro muro orfico è davvero imponente.

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