Se tutte le famiglie che hanno il requisito per essere abbonati pagassero il canone di abbonamento, azzerando così l’alta quota di evasione (pari a circa il 30%), l’ammontare unitario dello stesso canone potrebbe diminuire dall’attuale 113,5€ a circa 80€, mantenendo la stessa entità dei ricavi Rai da canone. Si realizzerebbe la nota equazione che se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero meno.
Si dovrebbero anche introdurre soluzioni di esenzioni, totali o parziali, per i meno abbienti, oppure più semplicemente per i più anziani (che fra l’altro sono i maggiori consumatori di televisione).
Anche la quantità di pubblicità della Rai dovrebbe essere più contenuta. La Rai (vedi tabella) è il servizio pubblico che in Europa (tolto il caso della Spagna, dove il servizio pubblico locale si finanzia solo con la pubblicità) ha la maggiore incidenza della pubblicità (la BBC non fa pubblicità, ma ha ricavi consistenti per la vendita nel mondo dei programmi, attività quasi inesistente per la Rai). Ciò causa, com’è facilmente intuibile, una sorta di deriva commerciale della Rai, causando la sua omologazione alle Tv commerciali (delegittimandosi così come servizio pubblico).
Se l’ascolto, il raggiungimento del target diviene l’obiettivo primario, è evidente che i contenuti dei programmi ne risentano (ciò non vuole dire assolutamente che peggiorano, solo che cambiano la finalità). In linea teorica, il servizio pubblico non deve sostituirsi al mercato, ma integrarlo con programmi di qualità e con un’informazione pluralistica: è ciò che giustifica la sua presenza.
Se si dovesse dimostrare che il mercato Tv ha la forza per completare tutte le potenzialità del mezzo, l’esistenza del servizio pubblico non avrebbe senso.
La riduzione della quantità di pubblicità potrebbe conseguirsi con l’aumento dei limiti sull’affollamento pubblicitario, oppure prevedendo (come accade in Germania e Francia) l’assenza di spot per alcune fasce orarie e/o per alcuni giorni.
Alla riduzione dei ricavi pubblicitari conseguono due effetti.
Il primo riguarda l’ampiezza della Rai. L’azienda è andata avanti nel tempo per integrazioni, ampliando i perimetri di attività senza alcuna analisi sulla necessità o meno di chiudere attività vecchie e/o improduttive. Tre reti generaliste, tanto per fare un esempio, sono troppe e sarebbero sufficienti la prima e la terza rete (ancor più il principio vale per la radio: anche qui basterebbero la prima e la terza rete).
Il secondo effetto è che la quantità di pubblicità che la Rai perde possa riversarsi sul diretto concorrente, accentuando così la concentrazione nel mercato. La soluzione dovrebbe essere quella della riduzione delle reti generaliste a due anche per gli operatori privati.
Infine segnalo un’altra variabile d’introito per la Rai: il pagamento di un canone aggiuntivo, sottoscrivibile solo per gli abbonati, per le offerte premium, come i canali tematici. Ovviamente i programmi dovrebbero essere di così alta qualità da attrare un vasto interesse (ritengo, per esempio, che molte giovani famiglie sarebbero interessate a pagare un canone aggiuntivo per RaiYoyo).
Alla conclusione di questo percorso, la Rai si troverebbe ad avere risorse pressoché simili a quelle di oggi, gravando però i cittadini di un canone-base inferiore, seppur con un maggior impegno sulla programmazione.
Il secondo grafico “racconta” con i numeri la storia della Tv negli ultimi quarant’anni. Nel 1980, il canone era la risorsa prevalente poiché si veniva dal monopolio pubblico. Poi esplode la Tv commerciale e la pubblicità, e la Rai si adegua alla nuova situazione. Dal 2010 entra prepotentemente sulla scena la pay, nel frattempo, in un mercato in crisi, il canone riesce a mantenere la stessa quota.
La Rai dove si collocherà nel prossimo futuro?
In questo post ho abbozzato un nuovo assetto economico della Rai, che è parte della riforma del servizio pubblico e del sistema televisivo nel complesso; in Parlamento si discute in questi giorni solo della solita vecchia questione delle nomine.