Qualche tempo fa, di passaggio a Roma, ho trascorso una serata al quartiere Pigneto; indipendentemente da aperitivifici, pizze a taglio e localini radical chic rimane uno dei posti migliori dove trascorrere una serata nella Capitale. Certo, lo struscio di street-dealers e l’assedio di telecamere ed agenti in volante (e in borghese) non rende l’atmosfera più di tanto rilassata e gran parte dei problemi del quartiere, e di altri come San Lorenzo (vedi contestazioni al sindaco Marino) sono ormai tanto cronici da richiedere una rapida e drastica cura da cavallo. Certo il degrado e l’indignazione sono oggi ottimi bacini di consenso elettorale, ecco perché la politica è, con poche eccezioni, restia a mettere mano ai quartieri bollenti, polveriere ma allo stesso tempo ottimi investimenti elettorali.

Residenti del quartiere Pigneto si mobilitano contro lo spaccio di droga

Quindi no, certamente no, la cura da cavallo non consiste nel militarizzare i quartieri (militarizzati già lo sono) ma nel regolamentare la vendita di cannabis togliendo clienti ai mercati rionali dello spaccio a cielo aperto (attenzione, ho scritto regolamentare, non legalizzare).

Il cuore della movida del Pigneto e di San Lorenzo è grossomodo delle dimensioni del Red Light di Amsterdam, area quest’ultima dove fino a poco tempo fa i coffeeshop erano oltre cento; al Pigneto invece ne basterebbero giusto 3 o 4, per non congestionare più di tanto le strade con il via vai di acquirenti,  problema quest’ultimo in cima alle priorità dei consigli comunali olandesi, quando vengono annualmente revisionate le licenze dei coffeeshop.Ecco, tre o quattro punti vendita regolamentati per zona potrebbero essere una valida alternativa allo stillicidio quotidiano di mezzi economici e buon senso perpetrato dalla politica sul tema droga e soprattutto una ‘quadratura del cerchio’ al disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis approdato di recente in Parlamento che, diciamolo con franchezza, ha poche speranze di arrivare lontano.

E’ una buona proposta ma non sfiora l’emergenza e la questione, oggi, è più sanitaria e di ordine pubblico che di principio; in Olanda, negli anni ’70, si scelse la regolamentazione perché le strade di Amsterdam avevano lo stesso problema di quelle italiane oggi: erano invase dagli spacciatori. La maniera per quadrare il loro, di cerchio, fu quello di tenere la cannabis formalmente illegale, affidando ai comuni il compito di normare la faccenda sulla base della situazione locale; Amsterdam è diventata la capitale mondiale della ganja mentre ad Urk, un minuscolo centro protestante-ortodosso ad un’ora di treno dalla capitale guai anche solo a nominare la cannabis.

Così se nelle grandi città italiane la tolleranza venisse tollerata, sarebbe accettabile che un piccolo centro della Sila scegliesse invece di comportarsi diversamente. D’altronde la revisione delle Convenzioni sugli stupefacenti, che proibiscono agli stati di legalizzare le droghe in senso antiproibizionista potrebbe arrivare chissà quando e se da un lato l’Uruguay ne ha potuto fare coriandoli, come ha fatto bene a fare, l’Italia ha nell’Unodc una posizione ed un peso ben diversi dal piccolo Stato sudamericano.

Bisogna allora pensare pragmatico: i San Lorenzo e Pigneto d’Italia richiedono urgentissimamente misure che riducano l’impatto dello spaccio in strada e che offrano un accesso semi-legale alternativo alla marijuana oltre a regole locali su chi può consumare e dove. Settant’anni di proibizionismo non li cancelleranno commi e capoversi, purtroppo, ma solo una politica locale ragionevole e partecipata. I sindaci, in qualità di rappresentanti di governo, e le regioni avrebbero già la possibilità di fare qualcosa: che aspettano?

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