Società

“Delusi da lavoro e università, torniamo alla terra per fare qualcosa di concreto: produrre cibo”

Matteo, Jacopo, Filippo e Giacomo hanno ideato il progetto Onda d'orto in provincia di La Spezia per trasformare in appezzamenti agricoli produttivi terreni incolti, abbandonati e a rischio idrogeologico. E anche per sfuggire al percorso obbligato "fatto di scuola, aspettative famigliari, lavoro e pensione"

Quando è partito per l’Australia Matteo Ruffino, 29 anni, aveva alle spalle una Laurea in Ingegneria Nautica, diverse esperienze di facchinaggio a concerti e a catering, due anni di lavoro come ingegnere, altrettanti come insegnante presso istituti privati di formazione e vari incarichi a bordo di imbarcazioni da diporto. Il richiamo della terra, però, era forte. Troppo. Così, dopo l’inverno passato a raccogliere la frutta a 15mila chilometri da casa è tornato in Liguria, dove insieme a tre amici della provincia di La Spezia a fine 2014 ha creato Onda D’Orto, progetto agricolo per avviare la conversione di terreni incolti, abbandonati e a rischio idrogeologico, in appezzamenti agricoli produttivi. Il metodo è quello dell’agricoltura sinergica, che “vieta” di arare il terreno, fare uso di fertilizzanti e pesticidi.

Matteo, insieme a tre amici della provincia di La Spezia a fine 2014 ha creato il progetto agricolo Onda D’Orto

Insieme a Matteo, ci sono Filippo Silvi, 25 anni, che ha lasciato un’agenzia di moda di Milano e ha alle spalle due anni di studi alla Genoa Comics Academy. Poi Jacopo Zeni, 25 anni, con una laurea triennale in Pedagogia, una specialistica lasciata a metà in Neuroscienze e un lavoro in una comunità per tossicodipendenti, e Giacomo Muni, 28 anni, iscritto alla Facoltà di Lingue Orientali all’Università di Venezia, che ha lasciato gli studi a due esami dalla laurea.

“Durante il periodo universitario – spiega Giacomo – ho lavorato per potermi mantenere gli studi fuori casa. Poi, visto il costo sempre più alto della vita, sono stato costretto a tornare a casa dai miei genitori”, racconta Giacomo. Jacopo, invece, è rimasto colpito dalla superficialità con cui si affrontavano le materie di studio e dalla scarsa circolazione di idee innovative in ambito universitario.

La terra lavorata principalmente a mano e in base ai principi dell’agricoltura sinergica

Filippo è stato il primo a credere nel progetto, insieme a Matteo. “Ho lavorato per un anno a Milano in un’agenzia di moda. Le giornate erano dure: lezioni alla mattina, lavoro nel pomeriggio. La sera mi rimettevo sui lavori da consegnare ai professori“, racconta. “Dopo mesi faticosi ho deciso di cambiare aria e sono arrivato a Genova, dove ho studiato per due anni alla Genoa Comics Academy”. Ma anche stavolta le cose non vanno nel modo giusto: “Bellissima esperienza, anche se mi è servita a capire che passare la vita in una stanza con la schiena piegata su un foglio a disegnare fumetti non sarebbe stata la mia vita. Rappresentava quello che avrei sempre voluto fare sin da piccolo, ma ero più attratto dal mondo fuori”.

Filippo quindi torna a casa, a Sarzana, per prendersi un po’ di tempo e capire cosa fare davvero nella vita. “Sentivo che fino a quel momento le mie scelte erano state condizionate da un sistema che cerca di indirizzarti verso un percorso obbligato, fatto di scuola, aspettative famigliari, lavoro e pensione”. Insieme a Jacopo recupera il terreno da 1.500 metri quadri di suo nonno, e comincia a lavorarlo secondo le nuove tecniche agricole sinergiche. E al ritorno di Matteo dall’Australia l’idea si concretizza.

“Facciamo finalmente qualcosa di nostro che ci piace e in cui crediamo. E finalmente possiamo vedere un risultato tangibile”

Con l’ingresso nel gruppo di Giacomo tutto è pronto per partire. “Facciamo finalmente qualcosa di nostro che ci piace e in cui crediamo. Qualcosa di concreto: produciamo cibo. E finalmente possiamo vedere un risultato tangibile, a stretto contatto con la natura e con i suoi ritmi. Viviamo le nostre giornate all’aperto, non abbiamo bisogno di pagare l’abbonamento in palestra dopo il lavoro in ufficio, abbiamo una vita faticosa ma felice, siamo padroni del nostro tempo, e la gente che ci chiede la verdura o che ci vede lavorare nel campo è curiosa ed entusiasta”. Tutto il lavoro, dalla semina alla raccolta, è in gran parte fatto a mano, senza l’ausilio di macchinari.

Non è solo lo stile di vita a rendere soddisfatti i ragazzi, ma l’orgoglio e la consapevolezza di aver intrapreso un’esperienza importante, che sa di sfida. E visto che sono ancora alle prime armi, c’è tanto da fare. “Impariamo tutti i giorni sia dal lavoro quotidiano sul campo, sia per quanto riguarda gli aspetti più organizzativi e commerciali del progetto”.

“Se non fosse stato per questo progetto probabilmente avremmo intrapreso strade diverse, fuori dall’Italia”

Per i ragazzi di Onda d’Orto il rapporto con l’Italia è controverso. “Tutti noi abbiamo un’esperienza di vissuto all’estero. Se non fosse stato per questo progetto probabilmente avremmo intrapreso strade diverse, fuori dall’Italia”, spiegano. Per assurdo la crisi ha fatto il loro gioco, aprendo nuove strade in un settore difficile: “Al momento, infatti, risulta più facile trovare terre disponibili gratuitamente mediante comodati d’uso – raccontano – e l’esigenza del recupero di terreni abbandonati in dissesto idrogeologico nella nostra zona ci danno visibilità anche in possibili collaborazioni con diverse amministrazioni locali alle prese con censimenti di terreni da riassegnare a persone che se ne prendano cura”.

Al momento Matteo, Jacopo, Filippo e Giacomo vivono tutti a casa, con le rispettive famiglie. “Non siamo ancora economicamente indipendenti. Le nostre famiglie ci supportano dove non possiamo arrivare con le nostre forze”. Nel 2015 il progetto Onda d’Orto ha partecipato e vinto il bando Starter, che sovvenziona le nuove imprese spezzine, ricevendo un finanziamento di 4.700 euro. Allo stesso tempo i ragazzi si stanno impegnando per avviare collaborazioni con cooperative sociali e imprese interessate a creare progetti comuni. “Per ora restiamo con i piedi per terra e la schiena piegata perché il lavoro e la strada da fare è veramente tanta. Il bello è poterla percorrere”.