Mentre l’opinione pubblica è desolata e logorata da una crisi da cui non si vede via d’uscita, si pretende che si impegni nel dibattito, e parteggi pure, sulle cosiddette riforme costituzionali. Tuttavia se ancora si discute in maniera surreale di Senato elettivo o nominato, mentre non si capisce che fine abbia fatto l’Italicum, forse non è male fare un piccolo e rapido bilancio sulle riforme alle nostre spalle.
Cominciando dalla sbandierata soppressione delle Province, basta soltanto dire che essa è ancora lungi dall’essere a regime: è stata una risposta affrettata, per certi versi maldestra, all’antipolitica, ma con l’unico risultato assai modesto (in funzionamento ed economia) della scomparsa dei Consigli provinciali mentre gli apparati burocratici sono rimasti intangibili, con un effetto generale, salvo eccezioni, di vuoto, immobilismo o, peggio, caos.
L’altra è stata la riforma del titolo V della Costituzione che ha “devoluto” competenze fondamentali alle Regioni, nel nome del più sconclusionato federalismo inseguito da una classe politica subalterna alla Lega. Una riforma cervellotica, persino nello smottamento semantico della carica di vertice della Regione – da presidente in “governatore” – che ogni giorno pone all’attenzione generale temi scottanti: scandali di proporzioni gigantesche; servizi drammaticamente dequalificati per sprechi e incompetenze (oltre al malaffare); bilanci fuori controllo.
Se i diversi livelli istituzionali regionali, salvo lodevolissime eccezioni, in questi anni sono stati oggetto di devastanti indagini giudiziarie che hanno scoperchiato maleodoranti pentoloni e messo a nudo la peggiore classe politica esistente senza distinzione di latitudine, se il dato di massima è omogeneo circa la pessima qualità dei servizi prestati, se il danno economico è ingente, come si può negare che si sia dinanzi a un sistema inaccettabile, o che la riforma indotta e condotta sotto l’egemonia politica e culturale della Lega debba essere subito archiviata? Eppure oltre a tutto ciò, di per sé rilevantissimo nella crisi che l’Italia sta attraversando, si aggiunge un dato sociale e giuridico che investe direttamente gli italiani e che produce non soltanto disuguaglianze odiose ma alimenta sempre più processi di disgregazione e di perdita dell’unità nazionale.
Basta pensare a due soli esempi: sanità e scuola, che riguardano peraltro diritti costituzionali. Mentre prima esisteva un Servizio sanitario nazionale, improvvidamente cancellato, adesso ce ne sono venti e la situazione non è certo migliorata: i trattamenti sono diversi; i servizi hanno perduto qualità; i costi sono saliti alle stelle e il diritto alla salute oggi, soprattutto al Sud, è una chimera.
Mentre prima la scuola italiana non pensava certo a formare piemontesi, lombardi, sardi, toscani ma italiani (così tuonava 60 anni fa in Parlamento Concetto Marchesi), da quella riforma il federalismo più insensato, privo di senso storico e antropologicamente grottesco si è riversato nei programmi e ha pure dato fiato ai tromboni di un’insulsa propaganda, come ad es. la festa dell’Autonomia speciale della Sicilia; e mentre si vorrebbe inculcare un’identità siciliana ci si convince invece sempre più che, per l’atavica inadeguatezza delle classi dirigenti siciliane, quell’autonomia abbia prodotto più danni della mafia.
Purtroppo l’Italia rischia di apparire poco più di un’entità geografica destinata alla marginalità persino in Europa. Allora se davvero si volesse riformare l’articolazione dello Stato italiano bisognerebbe andare con coraggio in direzione opposta per tre obiettivi. Innanzitutto, l’abolizione delle Regioni, che hanno dato questa pessima prova. Al tempo stesso, una nuova attribuzione di forza e competenze alle autonomie locali, riassegnando strategicamente dignità all’indirizzo politico spesso mortificato o intralciato a vantaggio delle burocrazie locali dalle riforme Bassanini e riconoscendo loro antichi livelli di capacità di spesa sebbene con controlli ferrei.
Sono le città e le grandi aree metropolitane italiane che costituiranno i centri e i motori dello sviluppo economico e dell’ammodernamento del Paese, in termini di ricerca, innovazione tecnologica, coerente utilizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico.
Terzo, ricostruzione di uno Stato centrale forte, con una rigorosa Scuola di formazione della burocrazia, capace di trasmettere non solo competenze e specializzazione, ma anche una solida dimensione etica, che ognuno sa quanto varrebbe se tradotta in punti di Pil. Delle Regioni, delle nostre attuali Regioni, francamente gli italiani non sanno che farsene.
Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2015