“Io mi sono rifiutato, già da ragazzo, d’ammazzare una persona. Nella nostra tenuta di Acarta, in Calabria, era stata fatta saltare una pala meccanica e io avrei dovuto vendicare l’attentato. Non l’ho fatto ma da mio padre ho saputo che l’uomo era stato ucciso lo stesso quando, una volta tornati in Liguria, a Borghetto Santo Spirito, mi ha messo una pistola fra le mani dicendo: ‘La pala l’hanno pagata! Se entra in cava qualcuno che non conosci, non devi far altro che ammazzarlo e sotterrarlo da qualche parte’. Lo racconta a ilfattoquotidiano.it Rolando Fazzari.
Rolando è il figlio “dissidente” di Francesco Fazzari, emigrato in Liguria in giovane età e considerato dagli investigatori della Dia un “braccio economico delle cosche calabresi, incaricato di investire e riciclare il denaro provento di attività illecite”. “Io non so se mio padre è stato battezzato – spiega Rolando – ma mi hanno detto che mio fratello Filippo lo è stato. E’ stato mio zio Salvatore, il fratello di mio padre, a dirmelo. Comunque gli amici di mio padre erano quasi tutti pregiudicati e venivano a casa ospiti a mangiare o a nascondersi, quando avevano problemi giù in Calabria”. Il nome della famiglia Fazzari ricorre più volte nelle relazioni parlamentari antimafia (nel 2006 -2008-2009) e quando, nel 2009 Francesco muore, gli uomini della Squadra mobile di Savona si appostano per osservare chi partecipa al suo funerale e studiare gli assetti della ‘ndrangheta nel ponente ligure.
A Borghetto Santo in Spirito, il nome della famiglia Fazzari è noto per la “Cava dei veleni”, una discarica da 25 mila tonnellate di rifiuti pericolosi, chiusi in 12.500 bidoni, che costò allo Stato 21 milioni di euro per la bonifica. Per questa vicenda, venne condannato in secondo grado, un altro figlio di Francesco, Filippo, che oggi vive latitante in Spagna, mentre le altre due figlie, Rita e Giulia, continuano ancor oggi a occuparsi di cave con l’aiuto di Carmelo Gullace, marito di Giulia.
Carmelo “Nino” Gullace è stato arrestato nel marzo scorso per usura, con conseguente condanna a tre anni e un mese ai domiciliari in Calabria. Secondo il rapporto redatto nel 2011 dall’ex prefetto di Genova, Francesco Antonio Musolino, per la Commissione parlamentare antimafia, sarebbe il referente per il Nord-Ovest della cosca Raso-Gullace-Albanese. Negli anni ’80 venne prosciolto dall’accusa di duplice omicidio nell’ambito della faida con i Facchineri e da quella d’aver partecipato al rapimento di Marco Gatta. Più recentemente il suo nome è comparso in un’inchiesta lombarda, quella che ha coinvolto l’ex assessore regionale alla Casa, Domenico Zambetti. In una conversazione intercettata, l’imprenditore dell’oro Eugenio Costantino annovera “Ninetto” Gullace, insieme con il boss Pino D’Agostino, Peppe Ferraro e Micu Barbaro “fra i grandi della ‘ndrangheta ….gente che fanno tremare, i boss più forti…”
Cresciuto in questo contesto familiare, Rolando sceglie ben presto di allontanarsene: “Era 1984 quando sono entrato in una parrocchia di Loano e ho giurato a me stesso che non avrei avuto più niente a che fare con la mia famiglia d’origine – prosegue – Avevano cercato di far ricadere su di me la responsabilità per dei fusti interrati”.
Questa presa di posizione porta ovviamente delle conseguenze. La prima è che gli fanno terra bruciata e i prodotti della sua società, la Ligur Block, non si vendono. Rolando lavora nella cava di Camporosso, a Balestrino, in provincia di Savona. Scopre spesso gomme bucate, incursioni nottorne in ufficio, impianti spaccati e persino camion bruciati. Una volta qualcuno gli nasconde un mitra in cava, impacchettato con lo scotch marcato della società (una vicenda per la quale Rolando venne arrestato e subito rilasciato). E’ una situazione di tensione che coinvolge l’intera famiglia e che porta il figlio minore a recarsi spesso in cantiere di notte per controllare la situazione.
Sulla cava insiste una parete rocciosa che minaccia di franare e che Rolando chiede di poter metter in sicurezza sin dal 1996. Il permesso gli viene negato dalla Regione, competente in materia. Nel 1999 acquista quel fronte di cava con certificato di agibilità. Nonostante questo, nel 2005 chiede ancora inutilmente di poter intervenire. Il 31 ottobre 2012 la parete frana, uccidendo il figlio Gabriele, di neanche diciott’anni, che stava cercando di dare una mano al padre.
“Mio figlio è morto per una serie di concause – lamenta Rolando – ma io ricordo molto bene quando, negli anni ’80, Filippo Fazzari cacciò il responsabile regionale preposto alle cave, minacciandolo di tirargli una pallottola in fronte. Questa gente è così. E qui tutti parlano, ma poi hanno paura e fanno ciò che vogliono loro”.