Dalla fotografia scattata dall'Istat nell'ultimo censimento sul non profit emerge che il primo settore di attività è quello dello sport e della cultura, mentre l'assistenza sociale e la sanità pesano solo il 12%. Le risorse economiche, a sorpresa, arrivano per i quattro quinti dal comparto privato e non da Stato o donazioni. A ricevere l'82% dei fondi sono però poche grandi organizzazioni
La riforma del terzo settore sta suscitando un dibattito acceso, ma pochi si interrogano sull’oggetto della normativa stessa: che cosa proverà a riformare? Un universo sconosciuto ai più e sfuggente anche per gli addetti ai lavori. Il quadro più aggiornato e relativamente completo è quello fornito dal censimento Istat del 2011, che ha fotografato il non profit nella sua totalità o quasi. Ne emergono cifre importanti: 300mila organizzazioni attive, in crescita del 28% rispetto al censimento 2001. Poco meno di un milione di addetti, quasi 5 milioni di volontari e 64 miliardi di entrate, che sorprendentemente solo nel 14% dei casi arrivano dal settore pubblico e per l’86% sono invece private.
Le forme giuridiche – La forma giuridica prevalente (67%) è l’associazione non riconosciuta, cioè priva di personalità giuridica. Curiosamente si tratta di una tipologia che era stata esclusa a priori dal Codice civile del 1942, il quale prevedeva il riconoscimento obbligatorio per tutti gli enti senza scopo di lucro. Questa impostazione è stata sconfessata dal legislatore italiano in tutti gli interventi successivi, perché ritenuta un’ingerenza eccessiva nella vita delle organizzazioni in termini di controlli e adempimenti, ma ha avuto come effetto che realtà come i partiti e i sindacati a tutt’oggi non hanno nessun obbligo di trasparenza.
Seguono le associazioni riconosciute (22%), le fondazioni, le cooperative sociali e altre forme minoritarie. Un punto di domanda riguarda le coop sociali, a rigore fuori dall’ambito del non profit sebbene godano della qualifica di onlus. Infatti, la definizione Istat di enti non profit recita: “Unità giuridico-economiche dotate o meno di personalità giuridica, di natura privata (…) che, in base alle leggi vigenti o a proprie norme statutarie, non hanno facoltà di distribuire, anche indirettamente, profitti o altri guadagni diversi dalla remunerazione del lavoro prestato ai soggetti che l’hanno istituita o ai soci”. Invece le coop sociali possono distribuire utili ai soci, anche se in misura limitata. Per questa e altre ragioni è forte nel mondo del volontariato la richiesta di stralciare l’impresa sociale dalla riforma del terzo settore, affrontando il tema in un momento successivo. Come scrive Carlo Mazzini, editore di quinonprofit.it, “Stralciate la parte sull’impresa sociale (…) quello che non può aspettare è la riforma sul non profit che ha urgenze davvero maggiori rispetto a quelle delle imprese sociali. Dopo aver definito davvero il non profit occupatevi dell’impresa sociale, che è materia interessante, ma che ad oggi non ha una rilevanza come tutti noi vorremmo”. Quanto alla condizione di onlus, è forse utile chiarire che si tratta di uno status fiscale, non giuridico. Coop sociali e organizzazioni di volontariato ne godono di diritto, le altre non profit devono invece farne richiesta.
I campi di attività: a sorpresa in testa lo sport – Di che cosa si occupa il non profit italiano? Principalmente di sport e attività ricreative, vedi gli innumerevoli circoli con bar della provincia italiana e i volonterosi che all’oratorio fanno giocare a calcio e pallavolo ragazzi e ragazze. Lo sport è in assoluto la prima attività con il 31% delle istituzioni censite, percentuale che sale al 65% si somma anche le attività culturali. L’assistenza sociale e quella sanitaria valgono solo il 12%, meno di quanto sia percepito dai cittadini. Ancora più spiazzante sarebbe l’1,6% alla promozione del volontariato, se non fosse che la classificazione usata dall’Istat è lo standard internazionale Incpo (creato dall’università americana Johns Hopkins), che include in questa voce non le associazioni di volontariato ma le fondazioni private, che in Italia sono pochissime. Il vero volontariato è invece sparso all’interno dei vari campi di attività.
Per quanto riguarda le risorse economiche, i quattro quinti arrivano dal privato. E la stessa percentuale va a finire nelle casse delle grandi organizzazioni. L’86% delle istituzioni si finanzia per oltre il 50% con fondi privati e solo per il 14% con fondi pubblici, contraddicendo di nuovo una percezione diffusa, che immagina il Terzo settore gestore ormai quasi esclusivo del welfare statale. Le entrate complessive del non profit ammontano a 64 miliardi di euro, circa il 3,5% del Pil. Le uscite sono invece di 57 miliardi.
Interessante un’elaborazione sui dati Istat fatta da Carlo Borzaga, docente docente di Politica economica all’Università di Trento e presidente del Centro studi Euricse specializzato in ricerche su cooperative e imprese sociali: il 91% degli enti non profit ha un’attività market, cioè ottiene fondi non solo da convenzioni con gli enti pubblici e da donazioni, ma anche dalla vendita di beni e servizi. Ciò significa che quasi tutte le organizzazioni cercano di andare sul mercato per finanziare almeno in parte l’attività. Infine, anche nel sociale i colossi la fanno da padrone: l’82% delle entrate va nelle casse delle organizzazioni più grandi, quelle che rientrano nella classe con entrate superiori a 500mila euro. Il 5% del totale.
Un universo variegato ma limitato da gabbie normative – La fotografia che emerge dal censimento, dunque, è quella di un mondo estremamente variegato e dinamico. Ma secondo Johnny Dotti, fondatore di Welfare Italia e oggi libero professionista e docente alla Cattolica, ancora condizionato da gabbie normative che da un lato non lo definiscono chiaramente e dall’altro ne limitano il campo d’azione: “Il nostro ordinamento tende a chiudere il non profit nel concetto assolutamente superato di associazione che tutela interessi privati, mentre gli interessi pubblici spettano ancora allo Stato”, sottolinea. “E’ un’eredità del nostro codice civile che va assolutamente superata, dando spazio a forme giuridiche e organizzative ibride, che sappiano gestire i beni di comunità – penso all’acqua – con l’occhio alla sostenibilità economica ma senza intenti speculativi”.