“Al pubblico piace che ci sia un inizio, un po’ di confusione e un lieto fine. Ma non tutto è così scontato. E non lo è neanche la mia musica. La gente cercherà sempre di dirigerti verso le cose che le piacciono, ma se lo fai il processo creativo ristagna. E poi, quando si stancano di te, sei schedato e non puoi fare niente di diverso.”
Figlio di un dentista di St. Louis e di una pianista che avrebbe voluto che imparasse a suonare il violino, Davis si trasferisce a New York, suona nella banda di Charlie Parker, trova una sua identità, intraprende epocali battaglie d’amore con Cicely Tyson e Juliette Gréco, inizia la collaborazione con altri mostri sacri del jazz: Dizzy Gillespie, Gil Evans, John Coltrane, di cui, anche in vecchiaia, conserverà una foto che portava costantemente con sé fra Malibù e New York, dicendo di parlare con i loro spiriti e che questi lo consolavano e gli davano conforto.
Sregolatezze, arresti, l’infatuazione violenta per la droga, i successi planetari, da Kind of Blue a My Funny Valentine, fino ad abbracciare le innovazioni che erano state portate dal rock, con le frequentazioni di Sly & the Family Stone, James Brown e Jimi Hendrix, che porteranno all’incisione di In a Silent Way e Bitches Brew. E poi il silenzio, l’abbandono della tromba per quasi cinque anni, per poi tornare sulla scena a fianco di artisti pop e mainstream e alle influenze di compositori moderni come Karlheinz Stockhausen.
Quella che ci descrive John Szwed è il viaggio di un uomo fuori dal comune attraverso le infinite possibilità della musica, una continua improvvisazione di chi è deciso a sbagliare per poter andare avanti. È un libro di scelte, a vostre drastiche, un libro di cambiamenti.
“Miles non cambiò soltanto stili, donne e modi di vestire, ma anche identità: dal ragazzo pulito di provincia dei primi anni quaranta, diventò l’apprendista hip del bebop di fine decennio; poi il flâneur eroinomane dei primi anni cinquanta; il ribelle romantico dei tardi anni cinquanta; il simbolo dell’uomo afroamericano della fine degli anni sessanta; l’alchimista e soul man degli anni settanta; l’esiliato impazzito e rimuginante dei tardi settanta; e infine la vecchia pop star degli anni ottanta. Anche se poteva parlare del cambiamento come un’ossessione o una maledizione, lo affermava come se fosse una sorta di etica, che lo spingeva insistentemente a cercare nuovi rapporti nella musica.”
I dischi bisognerebbe comprarli, il vinile bisognerebbe riportarlo agli antichi splendori, ma è una battaglia persa contro la comoda, pigra possibilità che Internet dà, quella di digitare il nome di un artista o di un album e di viverlo immediatamente. Accontentiamoci di questo, se non altro la musica continua ad essere ascoltata.
Un mezzo utile se qualcuno volesse fare una ricerca nel variegato mondo del jazz è senza dubbio Improvviso singolare. Un secolo di jazz di Claudio Sessa, critico del Corriere della Sera e docente di Storia del Jazz presso il conservatorio di Cuneo (il libro, anche in questo caso, è stato da poco pubblicato da Il Saggiatore). Si tratta di una sorta di missione: raccontare le età del jazz. Per portarla a termine Sessa analizza gli innumerevoli sviluppi che questa musica ha avuto nella storia, dallo swing al free, passando per il bebop, il cool e le avanguardie; ci descrive i protagonisti noti e meno noti; ci svela aneddoti e prova a sviluppare analogie/sinergie con i maggiori fattori storici; prova a guidarci all’ascolto di questo complesso e affascinante mondo non solo musicale, ma anche umano, sociale, spirituale.
“Nell’improvvisazione jazzistica convivono dunque una forte esigenza di libertà individuale, un continuo confronto collettivo di idee, l’interazione con strutture prefissate a volte in maniera molto rigorosa, la necessità di rimanere coerenti con modelli espressivi e stilistici la cui fluidità non esclude regole precise. Nessun’altra tradizione improvvisativa sa essere così complessa su piani tanto diversi.”