Negli ultimi 20 anni il gettito tributario è aumentato dell’88%, da 258 a 486 miliardi di euro, il Pil nominale (a prezzi correnti) è cresciuto del 64% e quello reale del 9%. Ogni volta che i governi italiani hanno voluto risanare i conti, lo hanno fatto alzando le imposte. E quando il peso del fisco calava, saliva sempre il debito
Quella italiana degli ultimi 20 anni è una storia piena di tasse. Quando il Pil aumenta è normale che anche il gettito tributario si incrementi. Ma se il primo ristagna o cresce poco, una pressione tributaria asfissiante sottrae risorse che potrebbero essere destinate a consumi e investimenti, cioè a creare lavoro e migliorare la qualità della vita. Pazienza se a fronte di maggiori tasse fossero erogati servizi sociali, ma non è il caso dell’Italia. I tributi servono per lo più a pagare sprechi e corruzione del passato (sotto forma di interessi sul debito pubblico) e del presente.
Negli ultimi 20 anni il gettito tributario è aumentato dell’88%, da 258 a 486 miliardi di euro, il Pil nominale (a prezzi correnti) è cresciuto del 64% e quello reale del 9%. I maggiori incrementi si sono avuti tra il 1996 e il 1998 (governo Prodi, ministro del Tesoro Ciampi), nel 2006-2007 (ancora Prodi) e nel 2012 (Monti). Nel frattempo la pressione tributaria – il rapporto tra tasse e Pil – è passata dal 26% al 30%. Nel 1995 il rapporto deficit/Pil raggiungeva il 7,3%. Molti ricorderanno il contributo straordinario per l’Europa, che nel 1997 fruttò all’erario 4.900 miliardi di lire (2,5 miliardi di euro). Con quasi 30 miliardi di euro di tasse in più in un anno, la tosatura fu generale. Quell’anno le imposte dirette aumentarono del 10%, le imposte indirette del 9% (da 1,6 a 3,2 miliardi di euro le imposte governative) e quelle in conto capitale del 151% (oltre alla già citata tassa per l’Europa altri 3,5 miliardi di euro furono rastrellati con una ritenuta d’acconto sul Tfr). E quando l’Istat rese noti i conti nazionali del 1997, redatti secondo le regole del Sec1979 allora vigente, il deficit/Pil era al 2,7% e l’euro era a portata di mano. Oggi, con l’introduzione delle nuove regole di contabilità nazionale (il Sec2010), si scopre che nel 1997 il rapporto deficit/Pil era al 3%. Senza il maggior gettito di 30 miliardi di euro il risultato sarebbe stato tra il 5,4% e il 5,7%. Gli italiani per passare dalla lira all’euro hanno pagato non poco.
Fu solo nel 2012, con le manovre del governo Monti, che l’indebitamento netto fu ricondotto al 3%. A farne le spese ancora gli italiani, costretti a sostenere il fardello di ulteriori 23 miliardi di tasse (di cui 13 di maggiori imposte sui fabbricati nel passaggio da Ici a Imu) e una pressione tributaria schizzata al 30%, valore invariato con i governi Letta e Renzi. All’interno dell’Eurozona solo Finlandia (31,1%) e Belgio (30,6%) hanno una pressione tributaria maggiore di quella italiana, quasi 5 punti superiore alla media. L’Italia ha la quota più bassa in assoluto di gettito Iva (5,8% sul Pil), pur avendo un’aliquota ordinaria in posizione intermedia tra il 17% del Lussemburgo e il 24% della Finlandia. I fattori che nel nostro Paese determinano questa situazione sono sia l’ampio ricorso alle aliquote ridotte del 4% o del 10%, sia l’incidenza dell’evasione fiscale. In compenso l’Italia detiene il triste primato delle tasse sui prodotti (5,4%; in Germania il 2,5%), sulla produzione (3,6%, superata solo dal 4,6% della Francia; in Germania lo 0,7%) e sul reddito (14,5%, subito dietro a Belgio 16,2% e Finlandia 15,3%).
La storia degli ultimi 20 anni ci ha insegnato che per rispettare i vincoli di bilancio sono state aumentate le tasse. Nel Def di aprile, il governo ha previsto che il gettito tributario aumenterà di 80 miliardi tra 2014 e 2019. La pressione tributaria crescerà dal 30,1% al 30,7%, raggiungendo il 31,2% nel 2016-2017. L’annuncio di Renzi di un taglio di 50 miliardi in 5 anni dal 2016 (quasi il 10% del gettito totale), significa che le tasse in ogni caso aumenteranno, anche se – solo – di 30 miliardi di euro. Salterebbe il pareggio di bilancio, dall’avanzo previsto di 0,9% di Pil nel 2019 si tornerebbe a un deficit di 1,2%. Considerando le clausole di salvaguardia su Iva e accise previste dalle Leggi di stabilità già approvate, le coperture per dare seguito alle promesse di Renzi appaiono alquanto incerte. Non resta che attendere la Nota di aggiornamento al Def a settembre, con la quale il governo svelerà come rendere compatibile l’annuncio del premier con il rigoroso percorso di risanamento dei conti pubblici previsto dalle regole europee.
di Franco Mostacci
da Il Fatto Quotidiano del 22 luglio 2015