Proprio grazie agli audio raccolti all'insaputa degli intercettati, il carabiniere ha smascherato gli assassini di Graziella, uccisa dalla mafia a soli 17 anni perché aveva scoperto per caso l’identità di un latitante. L'avvocato di famiglia: "Eppure anche lui registrava fraudolentemente..."
“L’emendamento Pagano è uno scandalo: io con le registrazioni ho trovato le prove contro gli assassini di mia sorella, se le vietano quanta gente non potrà avere giustizia?”. Pietro Campagna è un carabiniere del Nucleo radiomobile di Messina. Ma è soprattutto il fratello di Graziella, assassinata a 17 anni dalla mafia, nel dicembre del 1985, perché aveva scoperto per caso l’identità di un latitante. Un caso risoltosi solo nel 2009 con la condanna definitiva all’ergastolo dei suoi assassini, il boss palermitano Gerlando Alberti junior e suo cugino Gianni Sutera. La storia l’hanno raccontata anche in un film per la tv (La vita rubata). E il suo epilogo è figlio soprattutto della testardaggine del fratello di Graziella. Dopo anni di indagini a vuoto e il rilascio di Alberti e Sutera, Campagna continuò a investigare, da solo, nonostante depistaggi e pressioni. E risalì alle prove che servivano, registrando di nascosto testimoni chiave.
Ora protesta, per quell’emendamento infilato giovedì notte alla Camera nel disegno di legge sul processo penale: “Chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni”. I giornalisti hanno gridato al bavaglio per le trasmissioni d’inchiesta, che con le riprese clandestine hanno scoperto porcherie e reati in serie. Il Pd ha promesso di correggere, di sottrarre alla norma il testo i cronisti e chiunque “eserciti attività professionali”. Ma non basta per il penalista messinese Fabio Repici, legale della famiglia Campagna e di tante vittime di mafia: “In molti processi le registrazioni effettuate da cittadini sono state preziose. Campagna ha risolto il caso di sua sorella, nonostante avessero depistato le indagini fin da prima del rinvenimento del cadavere. Parlarono di un omicidio passionale, ma lui risalì alla verità. E ora appare questo emendamento, con quell’avverbio, fraudolentemente, come se si riferisse a qualcuno che commette una truffa.
Eppure anche Campagna registrava fraudolentemente”. Obiezione: l’emendamento esclude la punibilità “quando le riprese costituiscono prova nell’ambito di un procedimento davanti all’autorità giudiziaria”. Insomma, se qualcuno trovasse la prova di un reato non dovrebbe correre rischi. Ma Repici scuote la testa: “Se l’autorità giudiziaria non si convince che ci sia materiale per un processo, o magari per riaprire un vecchio caso, cosa sarà di quella persona che ha registrato o ripreso di nascosto? Questa norma è un formidabile deterrente, un invito a non muoversi. E il messaggio è che dobbiamo avere terrore delle parole”.
Ma non basta, secondo il legale: “Il fatto che ora parlino di una salvaguardia per i giornalisti dimostra qual era l’originario, primo obiettivo dell’emendamento. Ma se rimanesse così, saremmo di fronte a un paradosso: un cronista rischierebbe molto di più pubblicando una registrazione vera piuttosto che riportando un’intervista inventata di sana pianta”. E allora, conclude Repici, “è evidente che volevano mettere il tappo alle intercettazioni fastidiose per la politica”.
Quando uccisero la sorella Pietro Campagna era un appuntato di stanza in Calabria. Fu lui a doverne riconoscere il cadavere, martoriato da cinque colpi di lupara. Il prezzo per avere trovato dentro una giacca un’agendina che svelava la vera identità di Alberti. Il boss, latitante assieme al cugino, portava i vestiti proprio nella lavanderia di Villafranca dove lavorava Graziella. Si presentava come l’ingegnere Toni Cannata. Ma la ragazza notò la menzogna. Se ne resero conto, in lavanderia. E lo seppero anche i latitanti, informati del fatto che la 17enne aveva un fratello carabiniere.
Pochi giorni dopo Graziella venne rapita e uccisa. Oggi Campagna racconta: “Cominciai a indagare da solo, dopo che avevano insabbiato tutto. Giravo sempre con un registratore, e alla fine riuscii a registrare la cognata di un boss del luogo, che copriva i latitanti. Mi raccontò che Alberti aveva due villette in zona, mi fornì riscontri precisi su luoghi e incontri. In un’altra registrazione una collega di mia sorella, poi condannata, mi riferì di pranzi tra i latitanti e un ufficiale dell’Arma”. Campagna fece alcune copie della cassetta. “Una – spiega – la portai alla caserma dei carabinieri di Villafranca: ma sparì. L’altra copia la portai a Repici. E alla fine fu determinante nel processo”. Adesso si discute di un emendamento anti registrazioni. E Campagna freme: “Se una persona è onesta, cosa deve temere? Mi creda, le registrazioni servono, eccome. Una norma del genere sarebbe un vero disastro”.
Da Il Fatto Quotidiano del 26 luglio 2015