“Giada è brutta e cattiva. Giada brutta schifosa, devo finire il lavoretto”. È l’autunno 2001 e Giada inizia ad avere i primi incubi, a volte parla nel sonno, anche per mezz’ora, tenendo gli occhi sbarrati, lottando con i “mostri”, picchiandosi sulla bocca, senza che i genitori riescano a svegliarla. Da sveglia invece è nervosa, irritabile, così sua madre, su consiglio di un medico, inizia a trascrivere su un diario i racconti di sua figlia: Giada ha appena tre anni. La madre domanda, la figlia risponde, il diario è impressionante: Giada racconta di aver paura della sua ombra, un’ombra che a scuola non esce, perché ha vergogna di maestre e compagni, ma viene fuori a casa. Un’ombra che, prima che lei iniziasse un “lavoretto”, voleva graffiarla e le diceva: “Non è bello”. Giada – le chiede sua madre – cos’è che ti fa star così male? “Non posso parlare – risponde la bambina – le parole sono finite lì”. “Lì”, dice, indicandosi i genitali.
Giada è stata violentata nel suo asilo. Descrive alla madre il suo stupratore e guardando un cartone animato ne ricorda il nome: “Ecco come si chiama – dice – mi è venuto in mente come si chiama, quello con i baffi e i capelli neri, nanerottolo che è alla scuola vecchia”. Poi racconta che l’uomo nel bagno “s’è abbassato le mutande” e ha “un pisello enorme che sembra un serpente, più grande di quello di papà”. Poi disegna il serpente su un foglio, lo arrotola, ne fa una specie di “tubo”, lo “porta alla bocca” e mima quello che l’uomo le ha fatto, precisando che “in bocca il serpente era molliccio e sembrava che si sciogliesse”. Dice che l’uomo l’ha fatta sdraiare, poi allargare le gambe, poi ha “appoggiato il pisello lì – indicando i genitali – e aveva spinto, spinto, spinto: mi ha fatto male mamma, per fortuna che ho stretto…”.
La galleria horror della Corte di Cassazione
Giada – come tutti quelli che leggerete – è un nome di fantasia. Ma se volete conoscere le sue vere generalità, purtroppo, è sufficiente cliccare sul portale della Corte di Cassazione. Troverete anche quelle di altri cinque compagni di asilo, come Giuseppe, che per le violenze subite ha sofferto un blocco nell’area del linguaggio e quando ha ripreso a parlare ha raccontato a sua madre: “Mamma, sai che il pisello è arrivato fino giù in gola?”. Oppure come Sara, che racconta di essere stata “toccata sulla passerotta con il crocifisso” che l’uomo portava al collo, mentre lui diceva: “Questo lo hai voluto tu”. E Marta, con il suo “gioco della neve”, cioè della “cremina da spalmare su tutto il corpo” dell’uomo, “sul suo pisello e sul suo sedere”; Marta che aveva “gridato per il dolore” quando l’uomo le aveva “infilato un dito nella pisellina”. La galleria dell’orrore, però, non finisce qui. Nella gran parte delle sentenze che la Cassazione ha pubblicato online, quando si descrivono violenze sessuali, soprattutto su minori, vengono oscurate le generalità delle vittime. Ma in molti altri casi questo non avviene.
I diritti violati e il dibattito inesistente
È deprimente che la classe politica del Paese alzi la sua voce, da anni, quando un’intercettazione – più o meno penalmente rilevante – tocca un proprio rappresentante, auspicando restrizioni nella libertà d’informazione, mentre decine di migliaia di persone, per di più appartenenti alle fasce deboli della società, vedono violare quotidianamente il diritto alla propria riservatezza. Su questa violenza, il dibattito politico, non s’è mai infervorato. Il diario di Iris Berardi, quello che racconta il suo rapporto con Silvio Berlusconi, è stato oscurato sulla rete. Il diario della piccola Giada invece è tuttora online. Ed è online la storia di Filippo, che quando aveva appena due anni e sei mesi, raccontò le violenze sessuali subite dal padre. La troverete sul portale delle sentenze online della Cassazione. Usate il sito come se fosse Youporn, cercate per parola, digitando “pompino”, “anale”, “sperma”. Ecco, Filippo era “stato ritenuto credibile – si legge nella sentenza – perché aveva riferito con parole e disegni di esperienze sonore, come l’ansimare del padre, e tattili, come l’appiccicaticcio dello sperma, circostanze queste frutto di un vissuto e non di invenzioni”.Poi scoprirete che “l’ansimare”, “il ciccio di papà”, la “roba bianca”, in appello avevano perso il loro valore probatorio perché era “plausibile” un’attività “suggestiva” da parte della madre. Il padre viene assolto perché il fatto non è provato “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Di certo, però, c’è che la storia di questa famiglia è online con i loro nomi e cognomi.
Di Ingrid, invece, sappiamo non soltanto che è una prostituta, ma anche che Michael l’ha “costretta, sotto la minaccia di un coltello e colpendola con uno schiaffo, a subire un coito vaginale e un coito anale, sottraendole la somma di euro 40 in contanti e un telefono cellulare, procurandole lesioni personali giudicate guaribili in cinque giorni”.
Il signor Michael ricorre in Cassazione sostenendo che la testimonianza di Ingrid non è credibile, ma il ricorso viene respinto, tra l’altro, anche perché “i giudici del gravame pongono in evidenza l’esistenza di un referto medico, comprovante l’esistenza di lesioni nella zona perianale” e che “tale documento indirettamente riscontri le dichiarazioni della vittima, la quale aveva dichiarato di non aver mai accettato il rapporto anale in ragione della sofferta patologia emorroidaria”. Ecco, della signora, possiamo ricostruire persino l’infiammazione del colon.
Le sentenze sono online senza oscurare i dati
Di storie simili, con divulgazione di dati personali relativi alla salute o all’orientamento sessuale, sul sito della Cassazione potrete trovarne parecchie. È sufficiente cercare nel suo motore di ricerca. Il Garante della Privacy, Antonello Soro, il 6 ottobre 2014 ha scritto a Giorgio Santacroce, presidente della Corte Suprema: “La pubblicazione integrale delle pronunce – con anche i nominativi, per esteso, delle parti e dei terzi coinvolti a qualunque titolo – non può non suscitare più di una preoccupazione in ordine al diritto della protezione dei dati personali (spesso anche sensibili e giudiziari) degli interessati. Questa preoccupazione si fonda sul rischio di indicizzazione, decontestualizzazione, finanche alterazione dei dati stessi, connessi alla loro indiscriminata accessibilità via web. Potrebbe essere utile riflettere sull’opportunità di espungere dai provvedimenti i dati identificativi che, pur nulla togliendo alla comprensione del contenuto giuridico, consentirebbe di minimizzare l’impatto, in termini di riservatezza, della più ampia accessibilità dell’atto in rete”. Il Garante chiede di non far circolare le sentenze sui motori di ricerca, come Google, per impedire che possano essere leggibili ovunque. E infatti il nome di Giada – che sarebbe comunque vietato pubblicare per legge – compare soltanto sul sito della Cassazione. Ma nessuno potrebbe impedirci di scaricarlo e diffonderlo. Giada, peraltro, mentre scriviamo non ha ancora compiuto 18 anni. Abbiamo cercato la sua sentenza su www.juriswiki.it, un sito gestito da privati. E la sentenza c’è. Ma non possiamo leggerla: “è momentaneamente oscurata perché i dati personali presenti potrebbero non essere stati correttamente anonimizzati dalla fonte originaria”. La sentenza è comunque disponibile sul sito della Cassazione www.italgiure.giustizia.it. Per quanto possa sembrare assurdo, è davvero così, Jurisiwiki l’ha oscurato, la Cassazione no.
dal Fatto Quotidiano del 27 luglio 2015