Ve lo ricordate Daniel Ortega, il dirigente del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale ed accanito anticapitalista?

Oggi, quel Daniel Ortega, da Presidente del Nicaragua, ha svenduto parte del suo paese al capitalismo cinese (assistito peraltro da imprese americane). Questa l’unica chiave di lettura del Canale Transoceanico del Nicaragua, i cui lavori sono iniziati il 22 dicembre 2014, e su cui qui da noi regna il silenzio massmediatico. Le grandi opere distruggono il mondo, comunque siano targate, e ciò avviene nel silenzio planetario.

Un’opera faraonica questo canale, dal costo previsto di 40 miliardi di dollari, che taglierà il paese a metà, da est ad ovest, dalla foce del fiume Brito sul Pacifico a quella del fiume Punta Gorda sul Mar dei Caraibi, spezzando la continuità ecosistemica del corridoio biologico mesoamericano: un canale di navigazione profondo almeno 30 metri, largo da 230 a 520, lungo ben 278 chilometri (contro i 77 del canale di Panama) che attraverserà non solo vaste aree di foresta vergine ma anche, per oltre 100 chilometri, la maggiore riserva di acqua potabile del Centroamerica, il lago Nicaragua o Cocibolca.

Con conseguenze incalcolabili: la distruzione di migliaia di chilometri quadrati di boschi e di zone umide della riserva protetta di San Miguelito, con danni inimmaginabili all’habitat di almeno 22 specie già a rischio di estinzione; un pericolo maggiore di catastrofi naturali in una zona già ad alto rischio sismico (il canale, infatti, dividerà in due l’arco vulcanico centroamericano e passerà a fianco di vari vulcani attivi); un colpo decisivo alla qualità dell’acqua e alla sua distribuzione – grazie all’impatto combinato dei lavori di costruzione del canale e delle perdite accidentali di petrolio da parte di imbarcazioni fino a 250mila tonnellate di stazza –, senza contare l’espulsione di oltre 250 comunità contadine e indigene.

Un’opera faraonica che sarà realizzata dall’impresa cinese HK Nicaragua Canal Development Investment, la quale avrà altresì una concessione cinquantennale, rinnovabile per altri cinquant’anni. Il tutto realizzato nella più completa fretta (tempi record e senza alcuna trasparenza per l’approvazione della legge) e senza alcuna garanzia ambientale (non esiste uno straccio di valutazione di impatto ambientale). Cosa ci guadagna il Nicaragua? Un po’ di manodopera a termine e l’1% annuo delle azioni, in attesa di disporre del controllo completo dell’opera dopo cento anni. Ma Ortega sostiene che sradicherà la povertà dal suo paese.

Un’opera faraonica “giustificata” dal fatto che il canale di Panama non sarebbe in grado di sostenere l’aumento dei traffici. Una bugia. Gli americani infatti stanno ampliando il canale per far transitare navi più lunghe e più larghe. I lavori sono appunto in corso e se per la realizzazione del canale si scavarono 152,9 mc di terra e roccia, oggi se ne scaveranno poco meno, 126. Insomma, un raddoppio a tutti gli effetti.

Non solo quei rompiballe di ambientalisti sono contrari al Canale nicaraguense, non solo gli indigeni, non solo coloro che saranno espropriati di case e terreni, ma anche la società civile, primo fra tutti padre Ernesto Cardenal, fiero oppositore di questa follia, quell’Ernesto Cardenal, che pure fu sostenitore di Ortega, il quale ha scritto al riguardo un articolo dal titolo significativo: “La mostruosità del canale transoceanico.”

Un tassista di Granada, magnifica città che subirà pesanti conseguenze dall’opera, afferma: «Questa è la regione dove vengono i turisti. C’è la costa del Pacifico con le grandi spiagge e le onde, quella dei Caraibi col mare calmo e trasparente, la natura tropicale di Ometepe, i vulcani, le isletas nel lago Nicaragua. La gente continuerà a venire, quando invece della tranquillità incontaminata, troverà le enormi navi cargo delle rotte internazionali? E a quel punto io, che col canale non farò un soldo, dove andrò a finire? Qui già siamo poveri, e se non scoppia una rivolta contro Ortega è solo perché i Paesi vicini non ci permettono di fare un’altra guerra civile. Se ci mettono così in mezzo alla strada, però, cosa ci resta da fare?».

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