Politica

Sanità pubblica: il Senato ne sancisce la fine

C’è un bel film di Michael Moore, “Sicko”, che racconta e descrive il viaggio nella sanità americana. Il sistema della sanità negli Usa è dominato dalle compagnie assicuratrici che sono le padrone della vita e della salute dei cittadini americani. Da quelle parti è il censo a fare la differenza tra la vita e la morte, a decidere in quale gradino della società si può sedere e a cosa si ha diritto in base al proprio reddito. I poveri perciò hanno pochi diritti, non è raro che non siano in grado di permettersi un’assicurazione sanitaria e il sistema li scarica sul marciapiede perché spogliati del biglietto d’ingresso per accedere al livello superiore, e quindi destinati all’estinzione proprio come il darwinismo sociale gli impone.

Da queste parti la sanità italiana è sempre stata pubblica proprio perché la nostra società non era fondata sulla legge del più forte, non era il censo a costituire un requisito essenziale per avere il diritto inalienabile delle cure gratuite e accessibili a tutti. La coniugazione al passato non è un errore perché da ieri è iniziata la fine della sanità pubblica italiana per come l’avevamo conosciuta nell’ultimo mezzo secolo. Le giornate di fine luglio e dei primi giorni di agosto, sono quelle migliori per piazzare qualche colpo di mano mentre gli italiani distratti sotto l’ombrellone cercano un po’ di tregua dal caldo. Il Senato ieri ha approvato la conversione in legge del decreto sugli enti locali, che contiene tagli alla sanità pari a 2,3 miliardi di euro all’anno a decorrere dal 2015. Questa volta purtroppo il numero legale non manca e per evitare sgambetti il governo impone la fiducia sul provvedimento. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per spiegare la portata della riforma ha coniato la singolare espressione di “efficientamento” che “porterà risparmi da investire nel settore”.

Forse siamo duri di comprendonio, ma dalle nostre parti un taglio è ancora un taglio, e significa meno risorse al servizio sanitario nazionale, riduzione della capacità di acquisto dei farmaci e peggioramento delle prestazioni sanitarie. Niente paura, quelle che noi consideravamo visite e cure indispensabili, da ieri sono “inutili” e gravano sul bilancio per ben 13 miliardi che vanno pertanto risparmiati. Chi avrà il compito di stabilire se un esame o una prescrizione medica è utile o viceversa? A questo dovrebbe pensare il medico che si crede, abbia le capacità per poter valutare se un esame sia necessario, ma in questo caso sarà forse il ministro Lorenzin a prendere questa decisione, oppure Yoram Gutgeld, l’eminenza grigia di Renzi, autore e deus ex machina della politica economica del governo, che qualcuno ha definito “Renzinomics”, utilizzando una declinazione inglese per rendere più trendy un derivato dell’austerità più feroce.

Prima di passare alle valutazioni sull’incostituzionalità di questo decreto, fermiamoci un attimo sui livelli di spesa in relazione al Pil della sanità italiana. Se si segue il filo della narrazione europeista, quella di “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”, dovremmo tacere e soffrire le giuste pene degli sprechi degli anni passati. Preferiamo mettere da parte il senso di colpa e la retorica dell’etica calvinista che descrive la gente italica come inaffidabile e infida, e quella del Nord Europa come modello di virtù e rettitudine.

Se si analizzano i dati dell’Ocse, emerge che la spesa sanitaria italiana è circa il 9,2% del Pil, al di sotto della media dei paesi Ocse pari al 9,3% del Pil e superata persino dalla martoriata Grecia che spende il 9,3%. I paesi che spendono di più in spesa sanitaria in Europa sono proprio quelli del Nord Europa che si piazzano ai primi posti, con i Paesi Bassi che spendono l’11,8% del Pil, la Francia l’11,6% e la Germania l’11,3%. Non è certo un demerito, ma smentisce le affermazioni che l’Italia spenda troppo in spesa sanitaria, e a questo punto se volessimo seguire la logica del “vincolo esterno” dovremmo aumentare la spesa in sanità per raggiungere quei Paesi più virtuosi, ma quando si parla di bilancio è solo in termini di suo contenimento e mai di sua espansione.

E la spesa farmaceutica? Anche sotto quest’aspetto il Belpaese si distanzia nettamente dalla media Ocse in termini negativi: dal 2009 al 2012 l’Italia ha ridotto del 15% la spesa in farmaci a fronte di un taglio dell’0,2% dei paesi Ocse. Se dunque sono state fatte già consistenti riduzioni negli anni passati, il sistema va incontro ad un’altra mutazione, ovvero la sua progressiva privatizzazione che di fatto lo consegnerebbe nelle mani delle lobby sanitarie e farmaceutiche.

E’ possibile conciliare il principio dell’art. 32 della Costituzione che prevede la somministrazione delle cure gratuite agli indigenti con questi nuovi criteri di contenimento della spesa? No, il decreto approvato va nella direzione esattamente opposta, dal momento che nega la facoltà di avere diritto a delle prestazioni che invece il servizio sanitario deve garantire a tutti i cittadini. Se un esame o una prestazione ieri considerata indispensabile, diviene oggi superflua è chiaro che i cittadini per avere diritto a quella prestazione saranno costretti a rivolgersi al settore privato, che non è gratuito e perciò rischia di negare le cure agli indigenti. E’ la faccia più crudele del darwinismo sociale che sta calpestando i principi di solidarietà della Costituzione e si macchia dell’ennesima violazione della Carta.

(in collaborazione con Cesare Sacchetti)