Il premier ha parlato alla riunione del Comitato centrale del partito annunciando per domenica prossima una consultazione tra dirigenti e quadri sulla sua strategia. Porte aperte a chi sceglierà la strada della scissione. E in caso di rottura, ormai quasi certa, si andrà alle urne
No alla demagogia di chi in Syriza vaneggia sul ritorno alla dracma: “L’uscita dall’euro senza alcuna possibilità di un sostegno finanziario, ma anche senza riserve, significherebbe solo una svalutazione rapida”. Porte aperte, anzi, apertissime per i dissidenti che sceglieranno la strada della scissione. E soprattutto la consapevolezza che in caso di rottura (ormai quasi ufficiale) le urne saranno la catarsi politica del primo governo di sinistra della storia greca. Syriza come un nuovo Pasok 2.0? Alexis Tsipras ha speso questi argomenti davanti al Politburo del suo partito, prima di annunciare un referendum interno previsto per domenica prossima, quando i poco più di 200 dirigenti e quadri dovranno dire sì o no alla strategia del premier. Cioè imboccare la strada del memorandum imposto dalla troika.
Ma restano immutate le distanze tra la frangia degli integralisti, i 40 deputati attovagliati attorno al cenacolo culturale di Iskra dell’ex ministro Panagiotis Lafazanis, e la pattuglia di chi non crede alla dracma e, forse, punta più che altro alla rielezione grazie all’appoggio all’attuale governo. Anzi, il solco si amplia. Il premier davanti al Comitato centrale ha preso la parola dicendo che “ci troviamo di fronte un grande dilemma: fare una ritirata tattica o spostare in avanti un compromesso che di certo non è quello che avevamo sognato”. Ma questo è, oggi. “Essenzialmente abbiamo dovuto prendere decisioni difficili”, ha aggiunto il premier invitando i membri del partito a dare il loro parere in modo chiaro e onesto e senza mezzi termini “per spiegare quali sono le opzioni alternative”.
Poi Tsipras ha accusato i dissidenti di non proporre strade praticabili, ma solo forme di populismo. “La battaglia sarà dura”, ha avvertito. Ma come non è il caso di “abbellire le cose, non serve drammatizzarle”. Poi l’annuncio di un congresso straordinario nel mese di settembre. Ecco il punto di rottura. I dissidenti, è l’accusa, vogliono la caduta del governo e una concordata e strutturata uscita dall’euro. Sostengono che l’accordo siglato da Tsipras non è politicamente gestibile, né lo è socialmente ed economicamente. Allo stesso tempo, parlano di disimpegno in Syriza e di necessità di nuove “road map”, si legga alla voce Kostantopoulou o Varoufakis.
Un dirigente syrizeo della prima ora fa questo ragionamento per descrivere la piroetta di Tsipras: la politica europea ha deciso di abbandonare la sua mission di creare occupazione, sostenere le imprese, stimolare il pil, non gravare di altre tasse cittadini e imprenditori già azzoppati da troika e balzelli. E invece ha scelto la strada opposta: nessuna idea innovativa, solo imposte e spending review. Ma la cosa più grave è che lo fa “in casa nostra con il consenso di chi, da sinistra, aveva promesso speranza e uguaglianza: una follia”.
La replica di Tsipras sta tutta in una battuta che sa di divorzio, non consensuale ma drammatico per chi arriva da una militanza comune durata vent’anni. “Come nella vita così in politica non si può avere tutto. Il primo governo di sinistra della storia greca o sarà sostenuto dai deputati di sinistra oppure farà a meno di chi lo considera non sufficientemente di sinistra”. E mentre il quotidiano satirico To Pontiki titola “Due battaglie ad agosto”, con due bagnanti che in spiaggia ascoltano le notizie della radio sulle nuove tasse, un consiglio speciale giunge a Tsipras anche da oltre Manica. L’analista britannico Hugo Dixon alle agenzie greche consegna un messaggio diretto al premier: “Se Tsipras formerà un governo stabile e affidabile nel mantenere un rapporto costruttivo con i creditori, allora si potrà guardare avanti verso un futuro migliore per la Grecia dopo 6-12 mesi”. Chissà se l’ambasciatore di Sua Maestà si riferiva anche al vero scoglio nelle trattative: il taglio del debito, su cui si sta consumando lo scontro tra Fmi e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble.
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