Emilia Romagna

Strage di Bologna, Guccini: “Vinse il terrorismo e la città non fu più la stessa. Non sono mai riuscito a scriverne”

Il cantante racconta la mattina del 2 agosto 1980 e quello che ha voluto dire per la storia del capoluogo emiliano. Siamo tornati con lui nei luoghi del crimine peggiore della storia italiana: 85 morti e un Paese ferito

Che Bologna fosse quella mattina alle 10.25 è difficile raccontarlo. Sappiamo che il caldo piegava le ginocchia e in un’aria surreale l’Italia che desiderava la villeggiatura perse gli ultimi frammenti di verginità, ripose palette e secchielli perché qualcuno aveva già calpestato i castelli di sabbia. Volevano spezzare il Paese e ci riuscirono in quell’estate del 1980. E Bologna, l’isola felice, la città delle botteghe appena disintossicate dal piombo del Settantasette, finì asfissiata dalle macerie che si lascia dietro il tritolo e la nitroglicerina. Da matrona divenne matrigna. Non diciamo sciocchezze: le ferite non fanno parte della vita, casomai la cambiano.

E quella ferita era così profonda porta i segni ancora oggi, non ci sono lifting che tengano. Già i binari delle stazioni di per sé non sono luoghi rassicuranti, intrisi di arrivederci che sono addii. Figuriamoci quando sai che nella sala d’aspetto di seconda classe morirono tutti, bambini e nipoti, genitori e figli. Uccisi da una bomba, messa in quel posto da Giuseppe Valerio Fioravanti, ex attore bambino, e la sua donna, Francesca Mambro, fascisti dei Nar.

Un anno dopo dalla torre degli Asinelli, Carmelo Bene, per la prima commemorazione della strage, chiuse la Lectura Dantis, Inferno XXXIII canto, con una dedica non ai morti, ma ai duecentomila vivi che lo ascoltavano, “come me feriti a morte”. Per tornare a un attimo prima abbiamo scelto Francesco Guccini, cantautore, scrittore e molto altro ancora, bolognese nato a Modena e cresciuto a Pavana, dove poi è tornato.

Perché Guccini, insieme a Lucio Dalla, quella città l’ha cantata. Perché sia lui che Dalla sulla strage non sono mai riusciti a scrivere una riga, proprio perché c’erano quei giorni, sapevano e non capivano, avevano le mani sporche a forza di scavare tra le macerie e vedere gli autobus (il 37) che correvano verso l’ospedale carichi di morti.

Perché Guccini scrive su piazza Alimonda e non sulla strage?
Vero. Era molto facile cadere nella retorica. O diciamo molto più semplicemente che non ci son riuscito. Un riferimento esiste, ma non è stato compreso.

In quale brano?
Bologna, appunto. A un certo punto dico “Bologna capace d’amore, capace di morte”. Quella mattina è tutta in quella frase. La morte, ma anche l’amore della gente che scavava a mani nude alla ricerca di qualche mano da afferrare. Nelle immagini di repertorio si vede sempre un musicista cileno, conosciuto attraverso Flaco Biondini, che si dannava come un pazzo tra una barella e l’altra.

Sì, vero. Diciamo che disse tutto.
Andare oltre sarebbe stata una forzatura.

Ma lei il 2 agosto del 1980 c’era?
Dovevo essere alla stazione. Invece presi il treno il giorno prima. Perché rimasi senza voce. La sera, il primo agosto, avrei dovuto tenere un concerto a Imola, ma lo annullammo per l’acciacco. Così presi il treno per Pavana la mattina prima del 2.

Giusto, Guccini ha rinunciato alla patente di guida.
Fieramente.

Fu un caso non trovarsi alla stazione. Chissà la voglia di scrivere “Guccini salvato da un mal di gola…”
Non ricordo. Può darsi anche che sia uscito su qualche pagina di giornale. In realtà non è vero perché io alle 10.25 non sarei mai partito, più facile rientrare a casa a quell’ora. Vivevo in un fuso orario diverso.

Poi che successe?
Il primo pensiero, il più importante, fu per mio fratello che lavorava alla stazione, all’ufficio postale. E quella mattina c’era. A noi, a casa, arrivavano notizie così, non capivamo mica bene cosa fosse accaduto. Continuavano a dire di una bombola del gas, poi che era esplosa una caldaia. Mio fratello, però, prima che le linee telefoniche finissero in tilt riuscì a chiamare e rassicurarci. Il resto lo sapemmo dopo, più tardi.

E il rientro?
Terrificante. La stazione ancora bloccata, intorno cadeva a pezzi. C’era un bar, dove noi perdinotte ci trovavamo, inghiottito. Il clima della paura, del terrore. In qualche modo ci rialzammo, ma forse non ci siamo mai fermati a pensare per la paura che non saremmo più andati avanti. Non so se Bologna, come si dice in maniera retorica, non fu più la stessa, probabilmente non lo era già più, ma è una cosa diversa oggi. Mi fa paura.

Bologna prima e dopo la strage: una linea Maginot del terrore?
Fu una cosa diversa da tutto quello che era stato prima. La città aveva vissuto il Settantatasette, ma sempre con un certo disincanto. Bologna era davvero un posto particolare, un crocevia di culture. Io insegnavo in un college, avevo ragazzi nordamericani, ma anche greci, somali, turchi. E mi ricordo che, soprattutto a quelli che arrivavano dagli Stati Uniti, era complicatissimo spiegare che potevano uscire la sera, che non sarebbe accaduto niente, che le ragazze potevano passeggiare sotto i portici, nessuno avrebbe dato loro fastidio. Non so se oggi potrei dire le stesse cose, non so se me la sentirei.

Era anche una città amministrata bene.
Sicuramente. Il sindaco più importante di quegli anni fu Renato Zangheri, forse la città era già nel futuro prima che lo assaporasse.

Vi rialzaste facilmente dalla bomba?
Non troppo. Perdemmo dei punti di riferimento fisici. Locali, ritrovi. Poi col tempo la sensazione che si fosse aggiustato tutto, invece non si era aggiustato ancora un bel niente.

L’estate di quattro anni dopo lei tenne uno dei concerti memorabili per la musica italiana, ne venne fuori un album, “Fra la via Emilia e il West”. Duecentomila persone. Fu un modo anche quello di tornare alla normalità?
No, la stazione ormai era alle spalle, per quanto ci si può lasciare alle spalle una strage di quella portata. Direi che non c’entra, forse riletto oggi si può intravedere qualcosa.

Il giorno dei funerali venne raccontato come la giornata della “Bologna che non ci stava”.
Sì, la città fece rientro per esserci nella Basilica di San Petronio. Il presidente Pertini fu uno dei pochi a essere applaudito. Dopo disse di non avere parole, “siamo di fronte all’impresa più criminale avvenuta in Italia”. Era vero. E a tutti quelli che passano in treno da Bologna non resta che ricordare. Tutti abbiamo fatto il possibile per rialzarci. Ancora oggi. Io, dal mio silenzio di Pavana, sono tornato per girare un documentario sulla strage. Recito la parte di un fornaio. Un contributo, forse più efficace delle parole che avrei potuto scrivere allora. Che però non sarebbero uscite dalla penna.