Lo Stato suona la ritirata: il 27 luglio l'agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, senza troppa pubblicità, ha messo in vendita le ultime partecipazioni pregiate che le erano rimaste in pancia. Senza base d'asta
La rotta forse l’avevamo già persa, ora tocca ai porti. Una bufera giudiziaria in piena estate spazza ormeggi e molli d’Italia.Il 29 luglio la Guardia di Finanza mette i sigilli a Ostia, arresta il presidente Mauro Balini, sequestra posti barca, parcheggi, uffici e aree commerciali e portuali per un valore pari a 400 milioni di euro. Pochi giorni prima era arrivata al giro di boa l’inchiesta della Procura di Civitavecchia su Fiumicino, a due passi dalla Capitale, il porto che doveva essere il fiore all’occhiello di Francesco Bellavista Caltagirone. Rischiano il processo in 15, spiccano i nomi di uomini di punta di InvItalia e Italia Navigando (ora liquidata), le società pubbliche che curano rispettivamente l’attrazione degli investimenti nel Paese e la promozione dei suoi porti turistici.
Sempre nel cuore dell’estate, ma lontano dai riflettori, succede anche altro: lo Stato suona la ritirata generale dal fronte del porto. Il 27 luglio scorso, senza troppa pubblicità, InvItalia ha battuto all’asta le ultime partecipazioni pregiate che gli erano rimaste in pancia, le uniche direttamente coinvolte nella gestione di porti turistici: Marina di Portisco, Trieste Navigando, Porto delle Grazie, Porto Turistico di Capri, Marina d’Arechi. Manca solo Fiumicino che non può essere toccata causa sequestro giudiziale. Alla bad company “Italia Partecipazioni”, restano gli scampoli delle mini-partecipazioni frazionate e di nessun conto, robetta. Finisce così un’epoca, quella in cui lo Stato si era svegliato “imprenditore della nautica da diporto”, lanciandosi in un faraonico progetto di rete portuale turistica nazionale che avrebbe dovuto connettere 50 porti e 25mila posti barca.
Correva l’anno 2002, le società pubbliche costituite allo scopo facevano incetta di partecipazioni e progetti infrastrutturali, finché si è capito che non funzionavano: il protagonismo pubblico s’incagliava in una gestione fallimentare via l’altra, investimenti per ampliamenti improbabili, riqualificazioni che affondavano nella sabbia. E poi pressioni politico-affaristiche, speculazioni, sprechi e pasticci. Inchieste. Nel tempo, complice la crisi, le perdite si accumulano mentre la redditività dei porti colava a picco, tanto da costringere più volte l’azionista pubblico a rettificare al ribasso il valore delle sue partecipazioni. Dopo 10 anni i debiti di ItaliaNavigando veleggiano sopra i 20 milioni di euro finché, proprio un anno fa, è arrivata la liquidazione della società, con trasferimento delle partecipazioni residue alla controllante Invitalia. Un anno ancora e scatta la vendita degli ultimi porti operativi, a sancire l’uscita di scena dello Stato da un settore che fino a ieri chiamava “strategico”.
Perché, a ben vedere, la nautica da diporto ha i suoi numeri: le stime dicono valga circa 2,5 miliardi di euro, occupi circa 20mila addetti tra diretti e indiretti che finiscono inevitabilmente per interagire con i 429 porti (più 617 punti di ormeggio) della Penisola. Intorno ai quali si calcola gravitino – per un motivo o per l’altro – sei milioni di italiani: equipaggi, cantieristica, ristoratori, personale di marina, commercianti etc. Ecco: da domani, bene o male che sia, lo Stato non se ne occupa più. Tutto il “cluster” nazionale della portualità turistica esce definitivamente dal suo perimetro, lasciandolo alle iniziative dei privati e alla cura delle singole amministrazioni. Pazienza se l’Italia resta pur sempre una penisola cinta da 7.375 chilometri di coste e il rilancio del turismo nautico è rallentato proprio dalla scarsità di infrastrutture: secondo i dati pubblicati dall’Ucina a giugno 2015 la Penisola riesce a dare un ormeggio soltanto al 33% delle sue imbarcazioni, contro il 66% della Spagna, il 41% della Francia e il 38% dei Paesi Bassi. Figuriamoci riuscire a offrire un posto ai naviganti stranieri in visita dando nuovo slancio a quel turismo che pure il governo Renzi avrebbe tutto l’interesse a voler spingere.
Quindi margini per il business, almeno sulla carta, ci sarebbero e pure ampi. Ma vuoi per incapacità, vuoi per difficoltà intrinseche al settore, in ben 13 anni lo Stato italiano non è riuscito ad agganciarlo e ora molla il colpo. E rischia pure di smenarci. L’operazione stessa, va detto, pone infatti anche una serie di interrogativi e un sospetto: pure questa, stai a vedere, finirà con la svendita di beni pubblici. Sfuggono ai più, ad esempio, i motivi che spingono a farla ora, col settore della nautica da diporto ancora in crisi ma in ripresa, i valori del mercato al minimo ma in risalita e le società che sono quindi sottovalutate. Il bando riporta una motivazione verosimile, ma piuttosto sorprendente: “in esecuzione di quanto disposto dalla legge 27 dicembre 2006”, il cosiddetto decreto Bersani, quello che impone alle società pubbliche di cedere le partecipazioni dirette. Ma siamo nel 2015, possibile che qualcuno se ne ricordi solo nove anni dopo? Ma c’è dell’altro. Il bando poi non prevede alcuna “base d’asta”. Gli unici valori di riferimento sono dati dal capitale sociale, dal valore nominale iscritto nel bilancio di InvItalia e da una relazione di stima commerciale realizzata dalla società di ingegneria interna, la Iap, che la società ha ritenuto però di non divulgare. E perché mai?
Dal quartier generale della società assicurano che il bando “è assolutamente cautelativo verso o beni pubblici e l’interesse dei cittadini”. Informano anche di aver trasmesso proprio oggi le offerte in busta chiusa a una speciale commissione “composta di soli docenti universitari, tutti sterni al Gruppo Invitalia per garantire la trasparenza e l’indipendenza necessarie”. Segno che nell’aria, vista l’aria che tira dai moli sotto inchiesta, c’è un gran bisogno di garanzie da esibire. Sulla procedura aggiungono che “è una gara al rialzo, noi chiediamo un prezzo di mercato. Saranno poi l’advisor, il cda di Invitalia e il Mise come ministero vigilante a fare le valutazioni delle offerte. InvItalia può comunque anche rinunciare ad effettuare la vendita se ritiene l’offerta non congrua”. Un’ipotesi tutt’altro che remota. La vendita basata su un valore determinato solo sulla base dei bilanci e specialmente della residua durata delle concessioni, rischia di produrre una svalutazione oggettiva degli asset e quindi una perdita patrimoniale secca per lo Stato-azionista, e dunque per il contribuente, mentre si produrrebbe un oggettivo vantaggio per il vincitore della “riffa”.
Prendiamo Marina di Portisco, in provincia di Olbia, 589 posti per barche fino a 90 metri di lunghezza nel Golfo di Cugnana, una delle più belle località turistiche tra Porto Cervo e Porto Rotondo. Partecipata da Invitalia al 100% ha un capitale sociale di 7,7 milioni di euro, è iscritta nel bilancio della controllante per 15 con un valore di stima che è però intorno ai 25. Si vende, ma a che prezzo? Se l’offerta accolta fosse inferiore ai 15 l’operazione genererebbe una perdita. Ed è molto plausibile che così finisca. Il marina ha infatti un orizzonte concessorio di soli 14 anni che arriva al 2029, un tempo insufficiente per chi volesse farsi avanti e ripagare coi ricavi l’investimento. L’unica opzione è accettare un prezzo inferiore al reale valore. In realtà l’alternativa c’era, bastava aspettare: la società portuale nel 2013 ha presentato l’istanza di proroga della concessione demaniale che nei prossimi mesi approderà in conferenza dei servizi. Vendere prima, a questo punto, significa rinunciare a un’offerta congrua e insieme fare un gigantesco regalo all’acquirente: se e quando l’allungamento dei termini della concessione andasse in porto, come richiesto dalla società, il valore dell’investimento fatto si moltiplicherebbe senza costi per due, tre, quattro…
Stesso discorso per gli altri porti. Quello turistico di Capri Spa, ad esempio, ha una concessione breve che si rinnova, però, periodicamente da decenni. Il socio è il Comune. InvItalia partecipa con il 44% a un capitale sociale di un milione di euro. Cartolarmente, dunque, la società vale poco ma genera milioni di ricavi ogni anno, perché Capri è Capri, non a caso ormeggiare lì con una barca di media grandezza costa almeno 200 euro al giorno. Ma anche qui, mentre il Comune chiede di restare, lo Stato scappa fuori pretendendo di far valere solo adesso una legge che ha disapplicato per nove lunghi anni. Ed è la risposta che viene data anche sugli altri cinque porti battuti all’asta. Nominalmente, tutti insieme, hanno un valore di 46 milioni di euro. Potenzialmente, come detto, varrebbero più della quotazione minima, se solo non si decidesse di liquidarli in fretta e furia. Magari per disperdere del tutto le tracce di una delle più ingloriose e fallimentari imprese della politica. Mentre tocca alla magistratura, come sempre, andare di porto in porto a ramazzare lo sporco e raccattare i cocci.