Musica

Discomusic, la rivincita postuma di un fenomeno di massa: il meglio (e il peggio) della musica simbolo degli anni Settanta

In un'accuratissima guida illustrata edita da Arcana, Andrea Angelini Bufalini e Giovanni Savastano ricostruiscono il decennio d'oro della musica disco. All'epoca era odiata da rocker e cantautori impegnati, ma aveva permesso alle minoranze di uscire dall'emarginazione

di Maurizio Di Fazio
Discomusic, la rivincita postuma di un fenomeno di massa: il meglio (e il peggio) della musica simbolo degli anni Settanta

La disco. Storia illustrata della discomusic” di Andrea Angelini Bufalini e Giovanni Savastano (edito da Arcana), non è solo un libro, ma anche un fantasmagorico viaggio nel genere musicale e concentrato di culture che ha marchiato a fuoco gli anni Settanta. Dal 1974 ai primissimi anni Ottanta, più o meno: dopodiché il sound di “the Queen of disco” Donna Summer e del maestro Barry White (su tutti) è uscito di scena, o meglio ha cambiato leggermente pelle. Sta di fatto che da quarant’anni la parola “disco” mette irrazionalmente paura a troppe menti “illuminate”. Eccovi un breve inventario di “Discofobia”: “Il nostro obiettivo negli anni ’70 era distruggere la Disco, una vera minaccia per la musica” (Tom Petty); “Degli anni ’70 ricordo la Discomusic e quanto la odiavo” (Steven Tyler, cantante degli Aerosmith); “Odio la Disco con tutte le mie forze” (Alice Cooper);“Degli anni ’70 ricordo purtroppo anche tanta musica di merda come la Disco” (David Gilmour, voce e chitarrista dei Pink Floyd). “Distruggere la Disco: mentre Stan Lynch, il batterista di Tom Petty & The Heartbreakers, si fa riprendere, nel 1979, nell’atto di spaccare una batteria elettronica, simbolo della musica da discoteca, il 12 luglio dello stesso anno, nello stadio di Comiskey Park a Chicago, migliaia di persone si riuniscono per l’“Anti-Disco rally” – scrivono Bufalini e Savastano -. Più di 5000 esaltati, al grido di “Disco sucks” (“la Disco fa schifo”), con indosso magliette con su scritto “Morte ai Bee Gees”, danno luogo a un episodio di intolleranza unico nel campo della cultura giovanile: centomila tra Lp e 45 giri di artisti discomusic (neri per la maggior parte) vengono lanciati in aria, distrutti, calpestati e, infine, in puro stile nazista, bruciati in un enorme falò al centro del prato al grido collettivo di “We are free again”.

In Italia, il quotidiano il Manifesto picchiava forte: “La Febbre del sabato sera è l’ultima astuzia delle multinazionali… il mito di Travolta è il volto nuovo con cui hanno deciso di aggredire i giovani. Dopo la droga e le religioni, adesso li vogliono ipnotizzare così”. Eugenio Finardi affermava: “Due furono i killer del Movimento politico studentesco: i brigatisti rossi e i Bee Gees”. Altri dichiaravano: ” Né con la tammurriata né con i Bee Gees”. Questi ultimi, con la colonna sonora del film che lanciò Tony Manero/John Travolta “La Febbre del sabato sera”, vendettero più di 40 milioni di copie, “il disco più venduto della musica moderna fino all’avvento di Thriller di Michael Jackson”. La “Bee Gees invasion” ebbe molti tratti in comune con la Beatlesmania del decennio precedente. “La saturazione fu tale che una radio di New York, la WXLO, a maggio del 1978 promosse l’iniziativa di un “Bee-Gees free weekend”. Da “I Feel Love” di Donna Summer (“il battito cardiaco degli anni settanta”) all’inno istantaneo e liberatorio di Gloria Gaynor “I Will Survive” (prima che fosse Aids); dai Village People a Barry White, e chissà quanti milioni di persone fecero e continuano a fare l’amore ascoltando “Let the music play”; e poi gli Chic, i Kool & The Gang, i Kraftwerk, il genio di Giorgio Moroder. Non dimenticando le discoteche-simbolo (tutte e due di New York: lo Studio 54 e il Paradise Garage); i primi grandi deejay sciamani e “psicologi delle folle” (Larry Levan e soprattutto David Mancuso, il padre di tutti i dj, “colui che trasformò l’appartamento in cui risiedeva, un loft newyorkese di poco più di 200 metri quadri nel quartiere di Chelsea, in uno dei primi club di culto per la Disco chiamandolo, appunto, The Loft”).

Gli autori di questa ricca e serrata ricostruzione del fenomeno disco non hanno dubbi, e la loro apologia trova riscontri molteplici nella storia a noi contemporanea. Oggi un gruppo come i Daft Punk è amatissimo da chi è cresciuto a latte e rock. E la “disco” gode anche di una sorta di “questione morale e sociale dalla sua parte”. Perché “le radici della disco-music erano semplicemente nei “fatti” della vita: neri, portoricani, omosessuali, working class, sottoproletariato urbano, classi sociali “basse” ed emarginate proprio dal “sistema capitalistico”, emergevano nel ballo e nel divertimento come surrogato dell’esistenza, dando luogo a momenti di aggregazione sociale trasversale non più “impegnati” nel senso classico del termine, ma espressi attraverso il corpo, le emozioni, la sensualità, l’unione fisico-sessuale: la Disco era l’alfiere delle fasce sociali mai prima rappresentate”. E poi a sonorizzare le discoteche e a scalare le classifiche di vendita (tra il 1977 e il 1979 il 50 per cento del mercato discografico era in mano alla disco) furono quasi sempre artisti afroamericani, finalmente “entrati da protagonisti, e non più da comprimari, sulla scena sociale, “rubando” per la prima volta gli stadi, le arene e i principali spazi radio-televisivi ai bianchi e agli artisti rock”. Un libro da leggere attentamente, da sfogliare, da conservare, o da sfoggiare (magari con Youtube e Spotify a portata di device).

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