INTERVISTA - Per il direttore del Tg di La7, la nuova legge sulla governance del servizio pubblico è "una Gasparri 2.0": "La politica non ha alcun interesse a tirarsi fuori dalla Rai, perché mai dovrebbe farlo?". E sul nuovo Cda, nominato con la vecchia legge "il Pd potrà fare il bello e il cattivo tempo"
“Matteo Renzi non è stato diverso dagli altri. La sua rottamazione si è fermata davanti ai cancelli di Viale Mazzini”. Enrico Mentana, uno dei giornalisti più popolari d’Italia e direttore del TgLa7, guarda da una certa distanza alla riforma della Rai in salsa renziana che ieri ha visto il primo passaggio a Palazzo Madama. E al governo che si appresta a rinnovare i vertici aziendali con la vecchia legge Gasparri.
Direttore, deluso da questa riforma?
Non sono deluso perché non mi aspettavo nulla. Questa non è una riforma della Rai, ma una semplice riforma della governance. Si dice la montagna e il topolino, qui non siamo nemmeno al topolino! Si sarebbe dovuto mettere le mani su tutto il resto: struttura, contenuti, ruolo del servizio pubblico. E mettere una distanza tra la politica e l’azienda. Ma questa è una richiesta impossibile da fare ai politici, Renzi compreso.
Perché?
Perché la politica non ha alcun interesse a tirarsi fuori dalla Rai. Perché mai dovrebbe farlo? Che interesse avrebbe? Io sono arrivato in Rai nel 1980 e posso dire che per la politica è una cosa assolutamente innaturale separarsi dalla tv di Stato. E anche in Rai non vedo chissà quale spinta verso l’emancipazione dai partiti. È una situazione che va bene a tutti.
Non crede che chi si pone come il grande rottamatore avebbe dovuto avere più coraggio?
Guardi, la stessa domanda l’ho rivolta io al premier un anno fa. E la risposta fu: da chi dovrebbero essere scelti i vertici della tv di Stato se non dalla politica? Da questo punto di vista il premier non ha fatto il “sorcio”, è stato coerente.
Renzi, però, ha sempre detto di guardare al modello Bbc…
Non è questo il punto. Per mettere una distanza tra l’azienda e la politica ci sono solo due strade. La prima è mettere la Rai sotto il controllo di un’Authority il più possibile indipendente, in modo da porre un paletto tra gli appetiti dei partiti e l’azienda. Oppure la privatizzazione.
Lei cosa sceglierebbe?
Io lavoro nel privato, lascio a lei intuire…
Come giudica questa riforma della governance?
È una Gasparri 2.0. Si è aggiornata la vecchia legge con qualche modifica, come i maggiori poteri del direttore generale che sarà ancora più legato a Palazzo Chigi. Concordo sul ruolo di capo azienda forte, ma poi bisogna vedere chi ci metti. Per il resto, aspettiamo, il testo definitivo ancora non c’è.
Ora si andrà al rinnovo con la legge Gasparri. Non si poteva attendere l’approvazione della riforma?
Se non è zuppa è pan bagnato. Il Cda era scaduto, quindi bisognava procedere. Con grande vantaggio del Pd che, visti i sontuosi numeri in Parlamento, potrà fare il bello e il cattivo tempo nel consiglio di amministrazione. Diciamo che il partito di maggioranza non aveva alcun interesse a temporeggiare.
Berlusconi non avrebbe saputo fare di meglio…
Non faccio paragoni di questo tipo. Dico però che dal 1994, da quando c’è il bipolarismo, non ricordo un vertice Rai che non abbia rispecchiato gli equilibri politici. E d’altronde quando il board di un’azienda viene nominato dalla politica, è normale che la consideri come suo azionista di riferimento.
Come vede il futuro dell’azienda Rai?
Il problema a Viale Mazzini è che il 99 per cento del suo personale fa parte della vecchia generazione. Come anche per la carta stampata, c’è il problema di rinnovare per stare al passo coi tempi e intuire cosa vogliono i giovani. La Rai andrebbe tutta ripensata e invece sono ancora lì a scannarsi su chi deve fare il direttore delle sedi regionali.
da il Fatto Quotidiano del 1° agosto 2015