Sarà vero, come scrive il Financial Times, che “il vento che spingeva Renzi si è già fiaccato”? A leggere i sondaggi, si direbbe di sì. E anche a giudicare dai continui errori da pugile suonato che commette il premier da quando ha perso le prime elezioni della sua vita: le Amministrative. La sua sintonia e sincronia con gli umori popolari sembrano evaporate nel giro di due mesi: mentre suonano nuove campane a morto sull’occupazione e l’annunciata ripresa (85 mila posti di lavoro persi durante il suo governo), lui si occupa di occupare la Rai; mentre persino Mattarella annusa l’aria e ripete che la priorità assoluta è la lotta alla corruzione e all’evasione, lui imbarca dieci impresentabili al seguito del plurimputato Verdini e si prodiga per salvare dall’arresto uno come Azzollini; e mentre l’Italia viene continuamente richiamata dalla Corte di Strasburgo e dalla Consulta ai suoi doveri di legiferare in materie sensibili che la vedono ultima ritardataria in Europa, lui cerca voti per una riforma del Senato che interessa solo a lui per cancellare le elezioni dei senatori e farli nominare dalle sputtanatissime Regioni.

Ma ci sono altre questioni più sostanziali che mettono a repentaglio il suo governo, sempre più precario come un trapezista senza rete: tutti ne osservano le evoluzioni aeree e si domandano se e quanto manca allo schianto. Che però, per fortuna (dei trapezisti e di Renzi) non sempre si verifica.

La squadra. L’allora amico Diego Della Valle, due anni fa, gli aveva suggerito di non avere fretta di conquistare Palazzo Chigi e di usare il plebiscito delle primarie che l’aveva issato alla guida del Pd per costruirsi un team di collaboratori validi e competenti, ma anche per girare l’Europa, accreditarsi, studiare, imparare il mestiere di premier e prepararsi per le prossime elezioni. Così Renzi avrebbe potuto presentarsi con la sua squadra e il suo programma agli elettori e, se questi – com’era prevedibile – l’avessero premiato, sarebbe salito a Palazzo Chigi con una maggioranza omogenea e compatta. Renzi invece scelse di bruciare le tappe senza passare dalle urne, portando al governo un’Armata Brancaleone di bassissimo profilo. E in Parlamento si ritrovò tre Pd: qualche decina di veri fedelissimi; altrettanti nemici giurati; e una pletora di voltagabbana bersaniani convertiti al renzismo per puro opportunismo, dunque pronti a tradirlo al primo inciampo. I quali per giunta, essendo stati eletti in base a un programma opposto al suo, se gli votano contro non possono essere accusati di tradimento. Perché a tradire il mandato è proprio Renzi con le sue politiche berlusconiane su lavoro, giustizia, scuola, Costituzione, sanità e così via.

L’Europa. Giunto al governo come un parvenu spuntato dal nulla, Renzi ha sprecato il semestre europeo in chiacchiere inconcludenti, restando a livello internazionale quello che era all’inizio: un peso piuma, un pelo superfluo delle cancellerie comunitarie. Il suo vacuo agitarsi fra la contestazione degli euroburocrati, le polemiche inconcludenti con i partner sull’immigrazione, l’oscillare frenetico tra i bacetti alla Merkel e gli ammiccamenti a Tsipras, fra i give me five a Obama e le genuflessioni a Putin, fra la tentazione di sforare il parametro del 3% e la guardia montatagli da un’occhiuta sentinella del rigore come Padoan (messo lì da Napolitano e chi per lui) hanno vieppiù peggiorato le cose, replicando – con qualche volgarità in meno – le pantomime del Cavaliere oltre la cinta daziaria.

L’economia. Puntare tutto sugli 80 euro (11 miliardi all’anno buttati dalla finestra per una mancia a pioggia che non sposta i consumi di un decimale) e sull’effetto drogante del Jobs Act (incentivi alle imprese per assumere a tempo indeterminato, ma con la libertà di licenziamento che trasforma i contratti stabili in precari) si è rivelato un tragico errore di agenda: le poche risorse disponibili potevano essere impiegate in politiche più forti sullo Stato sociale, tipo quel reddito minimo o di cittadinanza che esiste in tutta Europa fuorché – guardacaso – in Italia e in Grecia; e da una primo taglio fiscale alle piccole e medie imprese. Ora la coperta è corta, anzi è strappata e ogni annuncio sul fisco suscita l’ilarità generale perché lo sanno tutti che è già un miracolo se le tasse non saliranno ancora.

Le prospettive. Renzi sa bene che il tempo gioca a suo sfavore: più passano i mesi, più le enormi illusioni che aveva creato con le sue mirabolanti promesse diverranno disillusioni e gonfieranno il bottino di chi è da sempre fuori dai giochi (i 5Stelle e la nuova sinistra in erba di Landini e quella al Plasmon di Civati) o di chi riesce e far credere di esserlo (Salvini). Di qui l’urgenza di andare alle urne prima che il capitale di consensi, che alle Europee del 2014 toccò il record del 40.8% e ora veleggia poco sopra il 30. La mossa che ha in mente il premier è anticipare il voto alla primavera 2016 in un grande Election Day che gli consenta di caricare di significati nazionali le elezioni anticipate a Roma e in Sicilia che lui considera inevitabili con buona pace di Marino e Crocetta ma che, isolate da quelle generali, sarebbero una festa per i 5Stelle.

Una mossa da equilibrista senza rete, che ricorda il celebre autogol di Chirac: questi nel 1997 sciolse le Camere per rafforzare i gollisti e schiacciare i socialisti, che invece lo mandarono a casa. E non aveva neppure architettato l’Italicum: la legge elettorale che Renzi pensa di aver disegnato su misura per se stesso e invece potrebbe favorire al ballottaggio il M5S o l’eventuale destra unita. Cose che capitano ai leader furbi che si credono intelligenti.

Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2015

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