Emilia Romagna

Strage di Bologna: mi chiamo Paolo, non so ancora cosa farò da grande

Sono le nove di sera. E’ tardi e devo assolutamente andare in stazione. Fa caldo. L’aria condizionata non c’è in casa. A Bologna ad agosto c’è un’insopportabile cappa di umidità. Ma è bella comunque quando la sera, noi irriducibili che prepariamo gli ultimi esami di diritto, ci ritroviamo a bere una birra o passarci una canna sotto i portici di via Zamboni. Scherziamo, ridiamo, pensiamo a quello che saremo e quello che sarà il nostro futuro. C’è Giovanni, che un giorno diventerà magistrato. Barbara che farà l’avvocato. Roberto alla fine si fermerà all’università. Sarà un ricercatore. Poi ci sono io. Che ancora non so che farò da grande. Perché in fondo vorrei rimanere lì. Sotto quei portici vicino ai miei amici di sempre. Non abbiamo i cellulari né usiamo bancomat o carte di credito. Parliamo tutta la notte e magari a volte leggiamo. Quando passeggio lungo i viali mi porto dietro un mangianastri per ascoltare la musica. La sera prima lo avevo lasciato a Giovanni. Mi ha detto che me lo avrebbe ridato la settimana successiva. Ci saremmo rivisti per ripetere gli ultimi capitoli di diritto costituzionale.

E’ tardi. Il treno dovrebbe partire alle dieci e trenta. Almeno mi è sembrato di aver letto così sull’orario dei treni. I miei genitori vogliono vedermi presto. Se non arrivo in tempo per il pranzo ci rimangono male. Sanno che a Bologna studio molto, con gli esami sono quasi in pari, ma ogni tanto vorrebbero anche stare un po’ con me. Solitamente per chiamare mia madre scendo le scale della palazzina di Via Irnerio dove sto con i miei due coinquilini. C’è una cabina proprio lì sotto che va a gettoni. La chiamo di sera, prima di cena. Mi chiede se mangio abbastanza perché l’ultimo weekend che sono tornato diceva che ero troppo magro. Prima di partire mi aveva riempito di conserve, pacchi di pasta, pane da toast. Ognuno di noi porta qualcosa. Riusciamo a “ripulire” la dispensa in due giorni. Ma una cosa non manca mai a casa: il caffè e le sigarette. Ecco, una sigaretta. Scendo dal letto e infilo le ciabatte nei piedi. Cerco sul comodino una sigaretta sfusa e me l’accendo. Sono rimasto solo io il 2 di agosto a casa. Gli altri se ne sono già tornati tutti dai genitori. Devo lavare giusto due piatti, infilare i panni sporchi in valigia e partire. Non me ne accorgo di come il tempo passa in fretta. In un attimo sono già le dieci. Devo incamminarmi. Mi vesto in fretta. Raccolgo anche le lenzuola da dare a mia madre che me le avrebbe lavate per il lunedì successivo.

Io sto bene a Bologna, anche con questo caldo infernale, però ho anche voglia di vederli i miei genitori e la mia sorellina Sara. Mi aspettano tutti a casa. Poi ci sono i miei nonni che ogni volta che mi vedono gli si illuminano gli occhi: “Studia Legge Paolo, mio nipote. Da grande farà sicuramente l’avvocato o il giudice”. Si stimano nel presentarmi ai loro vicini. Ed io sono anche contento di dargli qualche soddisfazione ogni tanto.

Giro la chiave nella porta. E comincio a scendere le scale. Cazzo sono in ritardo penso. Devo cominciare a correre o altrimenti perdo il treno. Devo ricordarmi del biglietto. Mica si può comprare un biglietto on line nel 1980. Comunque sono già tutto bello sudato e l’umidità è insopportabile.

Alle 10 e 15 sono in stazione. Penso che alla fine, nonostante tutte quelle sigarette ho ancora fiato da vendere. Varco l’ingresso principale. Ci sono turisti, ragazzi della mia età e qualche famigliola. Mi metto in fila per prenotare un treno. Le code alla stazione di Bologna sono sempre state molto lunghe. Così nell’attesa tiro fuori un libro. Sto leggendo On the Road di Jack Kerouac. Che diavolo, lo avevano già letto tutti. Anche Sabrina la tipa con la quale ultimamente mi frequento. Mi sento un po’ sfigato che non l’ho ancora letto. Sabrina è partita due settimane prima. E’ tornata in  Sardegna dai suoi genitori per passare là il Ferragosto. E’ stato un colpo di fulmine con Sabrina. Fuori dall’aula in cui stavamo sostenendo l’esame di diritto del lavoro. Avevamo preso tutti e due 28. Sabrina è bellissima. I capelli corvini lunghi e mossi. La carnagione scura. Occhi di un verde smeraldo. L’avevo accompagnata alla stazione. Lei mi aveva lasciato il suo indirizzo e ci eravamo spediti delle lettere. Una l’aveva già ricevuta perché mi aveva risposto. Nel 1980 non potevamo scriverci sms. Io le scrivevo lunghe lettere d’amore e non ci eravamo dati neppure un bacio. Una dovevo ancora spedirgliela e la tenevo nello zainetto. Tra le pagine del libro di Kerouac che ovviamente mi ha regalato Sabrina.

Guardo la fila e l’orologio appeso in alto. Sono già le 10 e 20. Sta a vedere che anche questa volta faccio tardi penso.

Tiro fuori la lettera che devo ancora spedire a Sabrina. Voglio rileggerla non sia mai che ci siano errori di grammatica.

“Cara Sabrina, sono ancora a Bologna. Devo ripassare diritto costituzionale. Non ti nego che vorrei che tu fossi qua a farmi compagnia. E’ caldo lo so, da te sicuramente si starà meglio. Io non sono mai stato in Sardegna. Mi piacerebbe venirti a trovare un giorno. Volevo dirti che ho cominciato a leggere il libro “On the road” ed è ….”

La mia lettura è interrotta da un bimbo che piange. Fa i capricci. E’ caldo e ha sete. La mamma lo prende per mano e lo porta verso un bar. Guardo la scena perché quel bimbo mi ricorda me e mia madre. Chissà perché mi sono fermato a quel particolare così insignificante.

Sono le 10 e 23 e finalmente la fila comincia a muoversi. Rimetto dentro il libro e tengo la lettera in mano. Sui pannelli delle partenze le destinazioni cambiano. Un passo alla volta e vedo la cassa sempre più vicina. L’aria gira poco e tutti quei corpi vicini sprigionano ancora più caldo. Riprendo a leggere la lettera.

“…semplicemente fantastico. Dico, non hai mai pensato di viaggiare in autostop? Sarebbe un’esperienza unica e magari potremmo farla insieme…”

Alle 10 e 25 qualcosa interrompe di nuovo la mia lettura. Un colpo d’aria violentissimo. Mi ha fatto venire in mente di quando ti descrivono le deflagrazioni. Ero talmente assorto nella lettura che non ho sentito l’esplosione? L’aria è caldissima, infuocata. L’ho sentita che mi ha investito da dietro. E le persone sono sparite. Non le vedo. Non vedo il signore che avevo davanti. La mamma con il bambino, anche loro spariti. Quello che respiro non è ossigeno. Non lo so nemmeno io. Ma come provo ad inspirare sento che mi va a fuoco lo stomaco. Le mani, le gambe bruciano. Dovrò urlare? Ma a cosa servirà. Vedo tutto nero. Ho sentito qualcuno gridare. Io non ho gridato. Quando mi hanno avvolto le fiamme non serviva più a niente. Cazzo, farò più tardi del previsto. I miei mi aspettano e non potrò neppure avvisarli. Ripenso a mia mamma, alla piccola Sara. Ai miei nonni che si stimano tanto di me. Al mio esame di diritto costituzionale. A Sabrina. Lo volevo fare quel viaggio “on the road” con lei e invece non ne avrò l’occasione. C’è Giovanni che crede che dopo la morte ci sia un’altra vita, io dico di no. La sera prima che partisse mentre ci passavamo una canna mi disse se volevo scommetterci qualcosa. Sulla reincarnazione? Io gli avevo detto di no, che gli auguravo di vivere il più a lungo possibile per non scoprirlo. Poi anche Giovanni aveva convenuto che era meglio non scommetterci per scaramanzia. Prima di salutarci ci eravamo abbracciati. La cosa strana e che noi due non ci abbracciavamo mai. E chissà perché a Giovanni gli era sfuggita pure una lacrima.

Cazzo amico mio, a questo punto vedrò di fartelo sapere se dopo la morte c’è un’altra vita. Ti voglio bene.

02.08.1980

N.B. Paolo è un nome di fantasia, come Giovanni, Barbara e la piccola Sara. Questo racconto è dedicato a chi è sopravvissuto al 2 agosto del 1980 e a chi quel giorno ci ha lasciati per sempre.