Andrea Ferrero, economista e professore associato presso il Trinity college dell'università di Oxford, non esclude che il vero piano B del governo Tsipras fosse perdere il referendum e passare la patata bollente a un esecutivo di tecnici. E propone un compromesso per risolvere il problema del debito ellenico: seguire la strada usata in America Latina tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta
Le trattative tra Atene e la Troika sono ripartite. E il convitato di pietra, a quindici giorni di distanza, è sempre lui, l’accordo firmato la mattina del 13 luglio dai leader dell’Eurozona, Alexis Tsipras incluso. E, in particolare, l’evidente assenza di una soluzione adeguata a rimettere in carreggiata l’economia ellenica in mancanza di un alleggerimento dell’enorme mole di debiti che grava su Atene. Del resto, commenta a ilfattoquotidiano.it Andrea Ferrero, economista e professore associato presso il Trinity college dell’università di Oxford, se il negoziato di luglio è paragonabile a un potenziale scontro tra due veicoli che viaggiano in direzione opposta a velocità folle, Atene era in bicicletta mentre l’Europa stava guidando un camion. Ma ora a bocce ferme il tema della ristrutturazione del debito ellenico torna prepotentemente sul tavolo. Magari sul modello di quella attuata con successo in Messico, Costa Rica, Venezuela e altri Paesi latinoamericani tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, per volere del governo Usa. Lo strumento utilizzato, all’epoca, furono i cosiddetti Brady bond, dal nome dell’allora segretario al Tesoro americano. Alle banche creditrici fu proposto di scambiare i titoli di Stato ormai “spazzatura” con altre obbligazioni a scadenza più lunga e di valore inferiore, ma con tassi un po’ più alti oppure con titoli dello stesso valore ma ricevendo meno interessi. Un mix che permise di cancellare il 30-35% della zavorra che gravava su quei Paesi, mettendoli in condizione di attuare riforme indispensabili per uscire dalla recessione. E lasciando scegliere ai creditori se e di quanto ridurre la propria esposizione. “Si potrebbe partire da lì, aggiustando le condizioni alle caratteristiche della Grecia e dei suoi creditori”, è il suggerimento del docente. Che però avverte: per non ricascarci è necessario che sia Atene che l’Europa abbiano imparato la lezione.
Professore, si può pensare che il governo greco riesca a far ripartire l’economia del paese, considerate le recenti valutazioni del Fondo monetario internazionale?
È la domanda più difficile del momento. Credo che sia davvero complicato. La politica economica può fare ben poco. Sia la leva monetaria che quella fiscale sono bloccate. Il settore privato è allo stremo. Le liberalizzazioni potranno avere effetti positivi di lungo periodo, ma è improbabile che nel breve possano far ripartire l’economia. La mia impressione è che il debito vada ristrutturato, per quanto la Germania ed altri governi siano apparentemente opposti a questo piano. Forse un compromesso potrebbe essere raggiunto vincolando la ristrutturazione del debito a una serie di deficit decrescenti, cioè creando un consolidamento fiscale di lungo periodo. Esistono dei piani di ristrutturazione del debito sovrano che hanno funzionato bene in passato. Per esempio, il piano Brady attuato in America Latina in seguito ai default degli anni Ottanta. Si potrebbe partire da lì, aggiustando le condizioni alle caratteristiche della Grecia e dei suoi creditori.
Secondo lei è corretto ipotizzare che nel giro di qualche anno Atene sarà di nuovo alle prese con gli stessi problemi?
Non necessariamente. Però sono necessarie due condizioni. Primo, che la Grecia abbia imparato la lezione. L’irresponsabilità fiscale che ha condotto alla crisi non deve essere ripetuta. Il paese purtroppo sta soffrendo da quasi cinque anni. Spero che in futuro promesse insostenibili siano scartate dall’elettorato. La seconda condizione, ancora più importante, è che anche l’Europa impari dalla crisi. Perché se anche la Grecia non ricadesse più nello stesso errore, un altro paese potrebbe trovarsi in una situazione simile. L’Europa è davanti a un bivio importante. Deve chiedersi che cosa vuole diventare. È chiaro che la struttura istituzionale che ha portato alla crisi recente non ha funzionato. L’unione bancaria va nella direzione di maggior integrazione. È un passo importante ma a mio avviso non è sufficiente.
Nelle sue note all’accordo del 15 luglio l’ex ministro dell’economia greco, Yanis Varoufakis, ha tra il resto parlato di “waterboarding finanziario”. La trova un’affermazione condivisibile o è un eccesso?
E’ un eccesso, come lo sono state tante altre affermazioni da parte dei politici, sia greci che europei. Il dibattito politico sulla crisi è stato francamente di livello piuttosto basso, di nuovo tanto in Grecia quanto nel resto dell’Europa. Di sicuro, però, le politiche di austerità imposte alla Grecia sono state eccessive e hanno avuto effetti opposti a quelli desiderati. E non solo dal punto di vista macroeconomico, ma proprio dal punto di vista politico. Io credo che Tsipras e Syriza siano il prodotto dell’austerità eccessiva inizialmente imposta dalle “istituzioni” (o Troika). Le condizioni per ricevere i prestiti del 2010-11 hanno creato il presupposto per l’elezione di un governo che ha fatto danni notevoli senza ottenere nulla in cambio per il proprio paese.
Per Atene non sarebbe stato più conveniente un default? Sarebbe stato fattibile?
Il problema della crisi greca è che non ci sono precedenti di default in un’unione monetaria che non sia sovrana. Molti avranno sentito parlare in questi giorni del default di Porto Rico. Ma negli Stati Uniti esiste un’unione bancaria e un’unione fiscale, con trasferimenti dal resto del paese che permettono, da un lato, di gestire in maniera relativamente efficiente una crisi bancaria localizzata, e dall’altro, di sostenere l’economia reale. In Europa, l’unione bancaria è stata una conseguenza della crisi, e di unione fiscale non c’è nemmeno l’ombra. Se la Grecia avesse fatto default nel 2010, le conseguenze per l’economia europea, e forse mondiale, avrebbero potuto essere disastrose. Non dimentichiamoci che gli Stati Uniti uscivano dalla più grande crisi dopo la Grande depressione degli anni Trenta, e l’Europa stessa era stata colpita severamente dalla recessione. Molte banche europee erano esposte al debito sovrano della periferia. Credo che la decisione al momento sia stata di non rischiare, e probabilmente sia stata corretta. Alternativamente, si sarebbe potuto pensare a un default greco, con un piano di salvataggio a livello europeo delle banche più esposte. Il modello svedese delle good banks e bad banks poteva essere una soluzione. Non sono però del tutto sicuro che questa opzione fosse fattibile. Il problema quando si fanno questi calcoli è il rischio di contagio, che è quasi per definizione impossibile da quantificare.
Ma cosa avrebbe comportato fare default e rimanere nell’euro, considerato che i trattati non prevedono l’uscita forzata come invece voleva farci credere Schaeuble?
Di nuovo, difficile a dirsi, data la mancanza di precedenti e regole chiare nei trattati. Dati i vincoli fiscali ed i criteri di convergenza, il default di un paese membro dell’area Euro non sarebbe dovuto accadere. Immagino che se si arriverà ad un vero e proprio default (tecnicamente, un default c’è già stato…), la Grecia potrebbe volere uscire di propria spontanea volontà, anche se esistono dubbi tecnici sull’abilità del paese nel gestire una transizione di questo tipo. Da un punto di vista economico, non trovo nessuna ragione particolarmente convincente per cui la Grecia debba necessariamente uscire dall’Euro. C’è però un problema di liquidità nel sistema bancario. Uno dei creditori della Grecia è la Bce. Se la Grecia fa default, la Bce probabilmente sospenderà la liquidità di emergenza (l’ELA) alle banche greche, che si troveranno insolventi. Immagino che questa sia la posizione di Schauble.
Come giudica il fatto che Atene non avesse un piano ‘B’ da attuare se non avesse raggiunto un accordo con Ue, Bce e Fmi?La mancanza di un piano B conferma il mio giudizio negativo sul governo greco. Qualcuno ha descritto il negoziato tra Grecia ed Europa come il gioco dei polli, in cui nessuna delle due parti è disposta a concedere qualcosa all’avversario. A volte, il gioco viene descritto come due auto che procedono in direzione opposta a velocità folle e nessuno dei due conducenti è disposto a cambiare direzione. La mia impressione è che la Grecia in questa versione fosse in bicicletta mentre l’Europa guidasse un camion. Il risultato è stata una serie di decisioni schizofreniche: il governo greco abbandona il tavolo dei negoziati, indice un referendum in cui invita a votare per il No, vince il referendum, torna al tavolo dei negoziati e accetta essenzialmente il compromesso che era sul tavolo una settimana prima. Folle! In realtà, un’interpretazione diversa è che il referendum fosse in realtà il piano B, nel senso che Tsipras e il suo governo fossero convinti che il Sì avrebbe vinto al referendum. Al che il governo si sarebbe dimesso e avrebbe passato la patata bollente probabilmente nelle mani di un governo tecnico, che a sua volta avrebbe accettato le condizioni dell’Europa. Forse è una teoria del complotto eccessiva, però non mi sentirei di escluderla del tutto.
di Maria Teresa Antoniozzi