Daniele, cosa ti porta a suonare al Liri Blues?
Il mio amico bluesman Mario Insenga dei Blue Stuff spesso mi fa uscire fuori dal mio mondo musicale e a suonare il blues. Oltretutto Isola del Liri è un bel posto e ci vengo volentieri. Per me è un onore partecipare a questo festival: il blues è alla base di tutta la musica che ascoltiamo oggi, quindi è una manifestazione che va preservata.
Da un paio di mesi è uscito un tuo nuovo lavoro, A note spiegate.
A note spiegate è il nome che abbiamo dato a una serie di incontri tenuti tra il 2013 e il 2014 in cui insegnavamo al pubblico, fatto di semplici ascoltatori o di musicisti curiosi, a riconoscere emotivamente tonalità maggiore e minore, accordi di tensione o di riposo, scale, stili e strutture del jazz, ma anche a seguire la partitura di un brano imparando a distinguere la battuta, il segno di ritornello.
Insomma hai svelato il jazz per quello che è andando alla sua essenza.
Esatto. Un suono legato all’emotività dell’animo umano e alla naturalezza della musica. Spesso invece è un genere considerato materia esoterica per pochi eletti. Prima di tutto raccontavo le storie di chi ha dato vita al jazz: criminali, gente proveniente da bassifondi e suburra, ladri, magnaccia, truffatori, a volte ex assassini, in ogni caso gente che proveniva dal sottoproletariato urbano e non nordamericano. Una musica nata nel peggior quartiere di New Orleans, Storyville, l’unico in cui bianchi e neri avessero contatti, il quartiere delle bische e dei lupanari: la biografia di un Matteo Salvatore o di un neomelodico napoletano è molto più vicina a quella di King Oliver di quanto non lo sia la biografia di… chessò? un Enrico Rava.
Hai scrostato la patina radical chic in cui si crogiola oggi il mondo ultraprofessionale del jazz.
Esatto. Pensiamo ai concerti di Keith Jarrett, dove è proibito fumare anche all’aperto, scattare fotografie e addirittura tossire! Abbiamo riscoperto una musica profondamente popolare, messa a punto e portata allo stato dell’arte da uomini e donne al cui tavolo difficilmente, nella gran parte dei casi, sceglierebbe di sedersi il borghese e compassato pubblico del jazz di oggi. Il disco è una piccola parte di un laboratorio durato molto di più.
È un disco jazz dalla cadenza napoletana, perché il tuo dialetto e le tue origini si sentono anche musicalmente.
Questa è un’altra cosa che viene fuori dalla grande passione che ho per Sonny Rollins, musicista che ha sempre giocato sulla citazione. A note spiegate è un disco sulla musica improvvisata e non solo sul jazz, ma anche sulle musiche che mi hanno influenzato e fatto crescere: c’è Sonny Rollins ma ci sono anche Bob Marley, Charles Mingus, Led Zeppelin, Gato Barbieri, Jimi Hendrix, Frank Zappa. Perché per me la musica è come una tavola dove si possono mangiare piatti provenienti dalle diverse cucine di tutto il mondo. E sentire e suonare cose diverse fa bene alla mente e a tener il cervello sempre in esercizio.
È Il tuo venticinquesimo album. Come si sopravvive a un mercato discografico che rende tutto più competitivo e muscolare?
Beh, l’amore per la musica e il piacere che si prova suonando ti portano ad affrontare qualunque tipo di situazione. Il problema però a mio parere non è dell’industria discografica, ma è sempre lo stesso, tutto quello che non passa attraverso i grossi media soprattutto la tv ha uno spazio di visibilità pari a nulla. E rispetto a una ventina di anni fa, dove esisteva una realtà, quella dei centri sociali in cui si veicolavano cose che in tv non passavano, oggi non c’è più neanche quello. C’è una differenza enorme tra chi è presente in televisione e chi ne è assolutamente fuori o per scelta o perché non accede a certi canali. Col web si crea un mare magnum dal quale però è difficile emergere.
A proposito di Internet: qual è la tua opinione sul mercato digitale e su servizi come Spotify?
Ero molto più contento quando i ragazzi si scaricavano abusivamente, a gratis, la musica. Perlomeno nessuno ci lucrava. Oggi non c’è alcuna regolamentazione, non so nemmeno come faccia a trovarmi su Spotify. Ma dal punto di vista economico non arriva assolutamente nulla o pochissimo agli artisti nonostante sia un mercato con ampi profitti ottenuti grazie alla pubblicità. È un mercato assolutamente selvaggio.