La notizia suona un po’ come una bomba, specie per l’asfittico mercato italiano: Francesco De Gregori uscirà in ottobre con un album di cover di Bob Dylan tradotte da lui in italiano. De Gregori, il Dylan italiano, canta il Dylan vero e proprio. Titolo dell’album Amore e furto. Una bomba, appunto, ma anche una notizia che in effetti potrebbe pure suonare scontata, era naturale prima o poi lo facesse e, finalmente, l’ha fatto.
Il Principe ne parla in una intervista su Repubblica, e in qualche modo compie un percorso di manifestazione iniziato, sempre sulle medesime pagine, qualche tempo fa, nella famosa intervista nella quale si lanciava in una sorta di elogio della superficialità e nella quale rivendicava, parola più parola meno, il diritto di essere meno ‘poeticamente intelligente’ di come sia sempre stato disegnato (o ce lo siamo sempre immaginato). Il suo celebrarsi superficiale, il suo prendere le distanze dal ruolo di poeta politicizzato (già l’appoggio a Monti alle ultime politiche aveva fatto molto in questa direzione), il suo successivo convocare a Verona, per il quarantennale dall’uscita di Rimmel all’Arena, gente come Fedez, Malika Ayane o Elisa, ci aveva quasi fatto dire: ci eravamo sbagliati, ok. De Gregori non era affatto un poeta: ha scritto canzoni incredibilmente belle, da Pezzi di vetro a La donna cannone, ma in effetti il suo periodo di impegno politico è durato poco, il decennio a cavallo tra anni ottanta e anni novanta. Il resto è stato contorno, un abbaglio, una sorta di illusione ottica di massa. Lui è uno che ha azzeccato tanti bei brani, ma non è De Andre’ e manco Fossati.
Altroché Dylan. Mica basta emularlo, seppur apertamente, per esserne l’erede italiano. Mica basta intonare tutto il repertorio dal vivo, cambiando, spesso in peggio, le melodie, per essere Dylan. Ok, mettiamoci il cuore in pace. Poi arriva la notizia, e con la notizia le dichiarazioni, con De Gregori che lascia da parte le pose da dandy e parla serio del suo riferimento più stringente, Dylan, appunto. “Confessai in tempi non sospetti che Buonanotte fiorellino fu ispirata da Winterlude. E qui ribadisco con fierezza non la mia sudditanza, ma la mia provenienza da Dylan”. Registrato tra una pausa e l’altra del VivaVoce tour, la cosa più simile al Neverending tour dylaniano con cui De Gregori si è trovato a fare i conti, l’album ci presenterà dodici brani, tradotti con cura e cercando di essere il più dylaniani possibile, ci dice sempre su Repubblica.
“Non ho mai affrontato Dylan filologicamente, mai letto i mille volumi scritti su di lui. Adoro il suo modo di suonare, che ha spezzato certe ortodossie ritmiche e melodiche, come gli impressionisti in pittura demolirono la prospettiva”. Dodici brani, non tra i più famosi, come a chiudere un cerchio, a fare i conti col suo essere un cantautore passato sotto processo dai contestatori al Palalido negli anni 70 e poi diventato quasi un monumento. “All’inizio era proprio così: noi cantautori eravamo investiti di una autorevolezza quasi sacra, e qualche volta ce ne siamo compiaciuti. Gli artisti hanno sempre un ruolo di formazione nei confronti del pubblico, offrono un punto di vista, che sia Buonanotte fiorellino o Per i morti di Reggio Emilia”.
Oggi la curiosità per questo album è tanta. Come è tanto lo sconcerto di pensarlo a suonare con Fedez le canzoni di Rimmel o il pensarlo ospite in uno dei tanti talent da cui, negli ultimi tempi, lo si è visto spesso e malvolentieri. La speranza è che De Gregori, di fronte a Dylan, sia tornato a scrivere come un tempo. Che, almeno per una volta, il suo essere inconsapevolmente riferimento politico di più generazioni venga interpretato con coerenza. Che un po’ di profondità buchi la patina di superficie dietro la quale sembra ultimamente si voglia nascondere. Male che va continueremo ad ascoltarci i classici, senza Fedez e la Ayane, e le canzoni di Dylan originali.