Neppure un fiore davanti alla saracinesca dell’officina “L’evoluzionista-Riparazione moto plurimarche” di via Carbonara, strada parallela a via Duomo, nel cuore del centro storico di Napoli. Deporre un fiore, lasciarsi andare a un gesto di umana pietà, può offendere qualcuno e significa schierarsi. C’è il coprifuoco. Si spara e si uccide per niente. Allora meglio starsene rintanati, occhi a terra e faccia girata altrove.
Sul selciato ci sono ancora le sue tracce di sangue. E’ il sangue innocente di Luigi Galletta, 22 anni, meccanico per vocazione, grande lavoratore, serio, umile, educato, timido. Il quadro investigativo sta diradando le nebbie e ricostruendo i fatti. Venerdì mattina qualcuno a cui bisognava dire per forza di “sì” lo ha avvicinato per chiedere “servigi” per gli amici di miezz ‘a via. Luigi come tanti martiri prima di lui ha detto “no”. Picchiato a sangue la mattina, centrato da tre proiettili nella bottega mentre terminava di riparare una moto. Nessun testimone. Nessuno ha sentito e visto niente.
Come sempre, accade. Non è paura, non è omertà. E’ solo meschina convivenza, connivenza, convenienza. E’ solo schifo. Il suo rifiuto è stato un affronto. Uno sgarro che si paga. Un’alzata di testa. E’ Far West. E’ fiammata criminale che fa ripiombare Napoli nelle tenebre più buie. Luigi era una persona perbene, incensurato e cresciuto con l’assillo: “Tieni gli occhi aperti. Non fare questioni con nessuno. Comportati sempre bene”. I suoi organi adesso faranno vivere altre persone. E’ il gesto – nonostante tutto – di speranza e amore verso il prossimo che la sua famiglia ha compiuto.
Come allo stesso modo fece la famiglia Durante all’indomani dell’uccisione della 14enne Annalisa, ennesima vittima innocente di camorra come Lino Romano e i tanti, troppi da piangere. E’ un Vietnam all’ombra del Vesuvio. Luigi Galletta era bravo. Aveva talento. Le sue mani erano d’oro. Era stato scelto. Doveva mettersi a disposizione. Le bande di camorra hanno bisogno di armi e moto pronte all’uso. Un esempio? Leggendo l’ordinanza “la paranza dei bambini” della Dda dello scorso 9 giugno al progr. n. 7482 e quello n. 7484 delle intercettazioni ambientali c’è Antonio Giuliano (finito con gli altri fratelli in cella) intento ad occuparsi nel reperire per i killer che dovranno portare a termine un’azione di fuoco una pistola Beretta calibro nove corto con serbatoio da dodici cartucce e due motoveicoli da utilizzare. Si tratta di un “SH 300” e uno “Skipper”, che dovevano essere necessariamente riforniti di carburante “eh ma nello skipper la metto io la benzina vai, piglia solo”.
In un’altra intercettazione un altro fratello Guglielmo Giuliano informa una persona “mi piglio i 200 euro qua, i 150 euro per il meccanico, ho aggiustato la motocicletta”. Nell’ordinanza compare anche un altro dialogo in cui si fa riferimento all’impiego di una moto che però, non può essere utilizzata perché ancora in riparazione presso un’officina. I presenti alla discussione allora citano il modello Triumph 5 che qualcuno vorrebbe adoperare per la “missione” ma tutti ritengono essere troppo rumorosa, tant’è che affermano contemporaneamente: “…se ne accorgono da qua a cento metri…”. I mezzi a due ruote preferiti dalle paranze – emergono dalle carte delle inchieste- sono Honda modello SH 300, Yamaha modello T-Max 500, Piaggio modello Beverly 300, Aprilia modello Sportcity 300 e Piaggio modello Skipper.
I sicari di camorra, gli stessi bastardi che hanno ucciso Luigi, quando entrano in azione lo fanno con caschi integrali e in sella a potenti scooter e moto rielaborate. Oltre a truccare i motori occorre pezzottare il telaio ossia cambiarne i numeri stampigliati in modo da farli coincidere con libretti originali di comodo. I motori sono modificati come anche i carburatori e il sistema frenante. Le moto di camorra devono schizzare: possedere molta potenza e sviluppare, in pochi secondi, una forte accelerazione. Come un tempo si faceva con i motoscafi blu dei contrabbandieri di sigarette. Un lavoro accurato. Un lavoro di fino. Un lavoro svolto da gente in gamba e disponibile.
Luigi Galletta era il professionista che una banda di camorra voleva ingaggiare per fargli mettere le mani in quei motori. Rendere le motociclette imprendibili ed efficienti. Ma il giovane meccanico aveva capito tutto. Quelle erano brutte facce, gente pericolosa che di mestiere ammazza. Luigi ha semplicemente ascoltato la sua coscienza. Con candore e senza abbassare lo sguardo ha detto: “Mi dispiace, non posso!”. Non chiamatelo eroe. Era solo un napoletano onesto e di amore come lo era Maurizio Estate, un altro giovane “resistente” che lavorava nell’autolavaggio del padre in largo Vetriera a Chiaia.
Difese un cliente vittima di uno scippo. Il clan lo punì inviando un baby killer che lo uccise alla vigilia del suo matrimonio. Era il 17 maggio del 1993. Per quel gesto di grande altruismo, il presidente della Repubblica gli conferì alla memoria la medaglia d’oro al valore civile. Non si vince nessuna guerra -perché di questo si tratta- solo con medaglie ed encomi. Di fronte all’ennesima vittima innocente di camorra, un ministro dell’Interno come Angelino Alfano dovrebbe alzare il sedere dalla sua poltrona bullonata, correre a Napoli e con il Prefetto riunire un comitato per l’ordine e la sicurezza rendendolo permanente e adottare ad horas provvedimenti inequivocabili come il sequestro e l’immediata confisca di motociclette e scooter intestate o guidate da pregiudicati per reati associativi.
Stanare le officine meccaniche di camorra, fare terra bruciata con continui blitz nei santuari dei clan. Invece? Si dorme. C’è un vuoto e un imbarazzante immobilismo. Luigi Galletta ed i tanti innocenti non meritavano uno Stato così, pronto solo a finte lacrime e parole di circostanza.