Le risorse, per la maggior parte destinate al Sud, vanno rendicontate entro fine anno. Per non vedersele revocare il governo indicherà nella "fattura" opere che sono in realtà già in costruzione ma finanziate con soldi dello Stato o delle Regioni. La direttrice dell'Agenzia per la coesione, ancora senza regolamento organizzativo, ammette: "Mai tanto ritardo". Anche se Palazzo Chigi ha tutte le leve per far funzionare la macchina
“Progetti retrospettivi”. E’ questo il “trucco” con cui il governo Renzi conta di riuscire a spendere entro fine anno i 12,3 miliardi di fondi europei, di cui 9 per il Sud, che altrimenti Bruxelles ci revocherà. In pratica Roma li rendiconterà come se li avesse utilizzati per opere in realtà già in costruzione e finanziate con soldi dello Stato o delle Regioni. Mentre le risorse Ue verranno, se tutto va bene, usate in futuro per progetti in forte ritardo. Ad ammetterlo è stata, qualche giorno fa, Maria Ludovica Agrò, da dicembre direttrice della nuova Agenzia per la coesione incaricata di “supportare” e “monitorare” l’uso dei fondi comunitari. La Commissione storcerà il naso, visto che già tre anni fa in una nota di orientamento ha avvertito che “non caldeggia l’assistenza retrospettiva poiché si tratta di una procedura ad alto rischio di mancata ottemperanza alle regole”. Peraltro questa scorciatoia vanifica l’effetto di stimolo economico sul territorio, almeno nel medio periodo. Ma tant’è: da gennaio a maggio, quando è stato fatto l’ultimo monitoraggio ufficiale, sono stati spesi per progetti nelle aree svantaggiate solo 1,3 miliardi sui 13,6 rimasti dalla programmazione 2007-2013. Che ammontava a 46,6 miliardi totali. Più del 50% della dotazione del Fondo europeo di sviluppo regionale per la Sicilia e la Calabria, per esempio, è inutilizzata. E adesso bisogna correre.
L’Agenzia nata nel 2013 attende ancora il regolamento di organizzazione – La stessa Agrò ha fatto presente che “un ritardo così rilevante non si è mai visto”, nonostante le performance della Penisola nel trarre vantaggio dai fondi Ue non abbiano mai brillato. Non ha certo aiutato il fatto che la numero uno si sia insediata solo lo scorso dicembre, due anni e mezzo dopo il decreto del governo Letta che ha creato l’agenzia e cinque mesi dopo la nomina da parte del Consiglio dei ministri. Peraltro ancora oggi la struttura non è a regime, perché manca il regolamento di organizzazione necessario per definirne la struttura e i compiti dei singoli uffici. La speranza è che arrivi entro l’autunno. Nel frattempo l’agenzia che dovrebbe accompagnare l’attuazione dei programmi e garantirne la qualità sta ancora selezionando esperti esterni. Di questo passo, sarà pienamente operativa non prima dell’anno prossimo.
Un uomo solo al comando dei fondi – Renzi, alla luce dei dati preoccupanti dello Svimez e dopo la polemica con Roberto Saviano a proposito dei “piagnistei” sul Sud, ha convocato una direzione del Pd per presentare l’ennesimo piano ad hoc e magari riesumare il ministero del Mezzogiorno. Ma quello che manca non è certo un’ulteriore “cabina di regia”. Il premier, a partire dalla scorsa estate, ha di fatto accentrato nelle proprie mani la maggior parte delle competenze sulla programmazione dei fondi europei proprio per accelerarne la spesa. Con il decreto Sblocca Italia si è attribuito “potere sostitutivo” sull’utilizzo dei fondi in caso di inadempimento da parte dei governatori delle Regioni e da aprile ha anche la delega sul Fondo di sviluppo e coesione, che per il periodo 2014-2010 vale 54 miliardi di cui l’80% per il Mezzogiorno. Fino al passaggio di Graziano Delrio al ministero delle Infrastrutture la competenza faceva capo al sottosegretario di Palazzo Chigi, ma non è mai stata trasferita al successore Claudio De Vincenti. Nè per ora Delrio se l’è vista “restituire” come sperava. E la stessa Agenzia per la coesione, che ha preso il posto del Dipartimento omonimo del ministero dello Sviluppo, è soggetta alla vigilanza della presidenza del Consiglio.
Le leve per far funzionare la macchina in modo efficiente, dunque, sono saldamente nelle mani del premier. Lo stesso che il 24 febbraio 2014, rispondendo alle critiche di chi faceva notare la totale assenza della “questione meridionale” nel suo discorso programmatico al Senato, ribatteva: “Avrei dovuto utilizzare le solite frasi fatte che da decenni usiamo per il Mezzogiorno? Bastano veramente parole in libertà per avere la fiducia, o forse non è il momento di iniziare a usare i fondi strutturali?”. Alla fine dello stesso anno, il premier ha deciso di sottrarre ben 3,5 miliardi al Piano di azione e coesione, quello destinato agli investimenti nel Sud, per finanziare gli sgravi contributivi per i neoassunti (ovviamente di tutta Italia) previsti dalla legge di Stabilità.
Il nodo del patto di Stabilità interno – Il fatto è che il vero problema sono i vincoli di bilancio previsti dal patto di Stabilità interno. Come è noto, i fondi europei vanno affiancati da un cofinanziamento nazionale o regionale. Che però, come evidenziato dall’Ance, è di fatto incompatibile con i tetti di spesa previsti dal patto: quest’anno Puglia e Molise, per riuscire a usare tutte le risorse Ue disponibili, dovrebbero azzerare qualsiasi altra uscita. Comprese quelle per gli stipendi dei dipendenti. Per questo da più parti si chiede che il primo intervento sia una riforma delle regole di finanza pubblica. Ad auspicarlo sono sia Confindustria sia le regioni. Peccato che se gli enti locali vengono esonerati dal rispetto di quei “paletti” si rischi di sforare anche i limiti fissati da Bruxelles a livello nazionale. Infatti il governo, nonostante gli annunci, non ha mai ottenuto l’auspicata esclusione della quota di cofinanziamento dal calcolo del deficit. Al massimo, grazie alla maggiore flessibilità concessa a tutti i 28 Paesi dallo scorso gennaio, può invocare la cosiddetta clausola di salvaguardia per gli investimenti. Ma sempre nel rispetto del tetto del 3% per il rapporto deficit/Pil. E’ tutto da vedere, poi, se la Commissione Ue accetterà senza battere ciglio una “fattura” in cui sono indicate opere già fatte.