È davvero buffo e triste come funziona il circo mediatico globale. Per un paio di settimane i telegiornali e i giornali di mezzo mondo hanno dato ampio spazio alla storia di un leone ucciso da un uomo. Del leone e del suo bracconiere sappiamo tutto: il leone si chiamava Cecil, apparteneva a una specie protetta, ed era il simbolo del Parco nazionale Hwange nello Zimbabwe; il bracconiere era un dentista statunitense, si chiama Walter James Palmer e pare abbia pagato 55mila dollari per potersi avventurare in un safari illegale. La notizia si è presto serializzata e per giorni i media hanno riportato gli ultimi sviluppi: i social network sono esplosi contro il dentista, lo Zimbabwe, a corto di problemi, ha chiesto l’estradizione del dentista, Brigitte Bardot ha invocato “punizione esemplare”, i concittadini del dentista, in Minnesota, hanno riempito l’entrata del suo studio con pupazzi di leone e qualcuno ha anche aggiunto un cartello con su l’augurio di “marcire all’inferno”. Addirittura l’Empire State Building di New York si è illuminato per commemorare la scomparsa del re della foresta. Hollywood sembra già all’opera per trasformare la notizia in un remake del Re Leone.
Ora, per carità: io amo i leoni e odio i cacciatori, perfino quelli legali, figuriamoci i bracconieri. Da giovane sono stato iscritto alla Lega Anti-vivisezione, e per diversi anni al WWF. Ho allevato cani, gatti, pesciolini, girini, ranocchi, convissuto con scoiattoli e lepri nel mio stesso giardino canadese, e dato da mangiare a conigli, e uccellini che, purtroppo, erano in gabbia. Quando mio cugino catturava piccioni dal suo balcone di Napoli Vomero, mi dispiacevo tanto per la loro paura, anche se penso che poi li lasciasse andare, ma non so che fine facessero e soprattutto mi sono ben guardato dal chiederglielo.
Il punto è che la storia del leone Cecil è una meravigliosa narrazione. E si sa: nel giornalismo, come nella comunicazione politica, chi può (rac)contare una narrazione, parte vincitore. Ecco così che un paio di miliardi di esseri umani di tutte le latitudini si sono appassionate alla storia di Cecil, il leone buono, ucciso a casa sua dall’uomo bianco cattivo. Troppi i richiami, i simboli alla modernità: lo stivale del bianco ricco, ignorante e insensibile, contro la chioma folta e lucida e maestosa di uno dei simboli del continente africano, ancora una volta sfruttato fino alla propria morte per cosa, poi, per un divertissement.
Tuttavia, nei giorni in cui questa storia faceva breccia nei cuori di tanti, nel mare a sud di Lampedusa e sulla costa francese di Calais si ripeteva un fatto molto più drammatico e atroce. Si ripeteva, inesorabile, la morte per affogamento o asfissia di centinaia di esseri umani. E, però: uomini negri, africani o siriani. Di serie B, in qualche modo. Di quelli che ci hanno abituato al loro dramma quotidiano nel tentativo di scampare a carestie, guerre civili, violenze di casa propria. Noi di questi uomini non sappiamo nulla. Non sappiamo i nomi. Non sappiamo le età. Non sappiamo gli studi fatti. Non sappiamo di chi erano padri, fratelli, figli, ma sappiamo che lo erano. Non sappiamo cosa hanno pensato quando hanno capito di essere sul punto di morire. Quale sia stata l’ultima immagine che hanno catturato nei loro occhi. Proprio vero che una singola morte, anche se di un animale, è una tragedia, ma che un milione di uomini morti sono solo una statistica.
Allora lasciate che usi questo piccolo spazio per raccontare una sola narrazione contemporanea a quella di Cecil il leone, trovata sulle pagine della stampa inglese. È la storia di Shadi Kataf, figlio di Omar e Samira, nato a Damasco nel quartiere di Yarmouk il 2 luglio 1986. Shadi sin da bambino aveva due passioni: il nuoto e il calcio. Crescendo, era diventato un gommista e poi nel 2010 aveva aperto un garage tutto suo. Quando la guerra civile esplode in Siria, nel 2011, dei 150mila abitanti del suo quartiere ne rimangono vive solo 20mila. Fra queste, il nostro Shadi, che si mette in salvo valicando il confine. Nel 2012 Shadi è in Libia, per due anni. Approfondisce la sua passione per la pesca subacquea e sogna di arrivare in Italia, dove vuole diventare autista. Sbarca a Lampedusa il 25 agosto 2014, da Tripoli. Si rende conto rapidamente che inserirsi nella società italiana non è semplice: la crisi morde tutti. Allora decide di puntare più a nord: Inghilterra, dove ci sono già degli amici di famiglia che possono aiutarlo.
Arriva al porto francese di Calais e tenta, senza successo, dieci volte di traversare la Manica a bordo di un TIR, ma viene sempre riportato indietro. Eppure la costa inglese è lì: Shadi la può vedere nei giorni nitidi, da Calais. Allora prende la decisione, che comunica al cugino Ziad il 7 ottobre 2014: raggiungerà l’Inghilterra a nuoto. Nonostante Ziad gli intimi di non tentare quella follia, perché le coste inglesi sembrano vicine ma non lo sono affatto, Shadi assieme a un compagno di sventure siriano, il 22enne Mouaz al-Balkhi, compra il necessario al negozio Decathlon di Calais. Mettono insieme tutti i loro risparmi e comprano per 256 euro in contanti due mute da 5mm, misura media, con pinne e maschere.
Non sappiamo esattamente quando si sono immersi. Sappiamo solo che ossa umane, dentro una muta, sono state trovate pochi giorni fa sulle cose dell’Olanda e della Norvegia. Quelle in Olanda, stando all’esame del DNA, appartengono a Mouaz. Quelle finite in Norvegia, al nostro Shadi. Le mute hanno un numero elettronico seriale che ha anche confermato l’acquisto al negozio Decathlon di Calais, il 7 ottobre 2014, alle ore 20.03. Hollywood per ora non ha annunciato di trasformare la storia in un film. Non si hanno notizie di dichiarazioni di Brigitte Bardot in proposito, e la storia non ha bucato su Twitter o Facebook. La Siria non ha chiesto indietro i corpi dei due concittadini, che sono per ora sepolti in Olanda e Norvegia.
Aggiornato da redazione blog alle 16,50