Dopo Vienna i petrolieri si sfregano le mani in vista della totale eliminazione delle sanzioni prevista per fine anno. In prima fila tra le società che sono pronte a investire a Teheran c'è il Cane a sei zampe. L'ad Descalzi: “ll passaggio cruciale sarà la tipologia contrattualistica"
A poche settimane dagli accordi di Vienna sul nucleare civile iraniano, si apre la strada per un ritorno concreto delle compagnie petrolifere occidentali a Teheran. E l’Italia, con l’Eni presente nel Paese dal 1957, è in prima fila. Anche se le incognite non mancano.
È arrivata “la luce verde per la futura presenza delle società italiane” nel settore energetico, ha detto il ministro del Petrolio, Bijan Zanganeh, in occasione della missione in Iran capeggiata dai ministri dello Sviluppo economico e degli Esteri, Federica Guidi e Paolo Gentiloni. Tra gli atri, è volato a Teheran anche l’ad di Eni, Claudio Descalzi.
I temi affrontati sono stati i contratti “buy back” nel settore oli&gas, considerati poco profittevoli dalle compagnie petrolifere, e i crediti vantati dal Cane a sei Zampe nei confronti del paese asiatico (circa 800 milioni di euro). Per il momento siamo solo di fronte a “prime risposte non definitive”, come ha ammesso lo stesso Zanganeh. “Però quello che è accaduto, negli ultimi cinque mesi, è molto positivo e sono sicuro che quello che accadrà prossimamente lo sarà ancora di più”, ha aggiunto il ministro.
I nuovi modelli contrattuali saranno presentati a dicembre a Londra. Ed è allora che si capirà se realmente le compagnie petrolifere saranno intenzionate ad un ritorno nel Paese. “ll passaggio cruciale sarà la tipologia contrattualistica, ovvero come saranno i contratti”, ha detto Descalzi. Del resto da tempo, anche prima dell’accordo del 14 luglio, Eni ha sempre posto come condizioni per la ripresa degli investimenti in Iran la modifica dei contratti per lo sviluppo dei giacimenti. L’attività della società in Iran è al momento limitata al momento al recupero degli investimenti sostenuti in passato nei giacimenti South Pars 4 e 5 nell’offshore del Golfo Persico (Eni operatore, 60%) e Darquain (Eni operatore, 60%) nell’onshore.
Il sistema di contratti attuale, che impedisce alle compagnie petrolifere di mettere a bilancio riserve di idrocarburi iraniane o di acquisire partecipazioni in compagnie iraniane, si è dimostrato non conveniente per le multinazionali. Così gli investitori sono stati scoraggiati a investire in Iran anche prima che le sanzioni fossero rafforzate.
Ora però la situazione sembra volgere al meglio per le compagnie e, oltre ad Eni, in molte si sfregano le mani in vista della totale eliminazione delle sanzioni prevista per fine anno. Vari incontri si sono susseguiti anche prima dell’accordo per ricucire i rapporti rotti dopo le sanzioni. Tra maggio e giugno alcuni dirigenti di Shell hanno avuto dei colloqui con i funzionari della repubblica islamica per parlare del debito in essere nei confronti della Nioc per il greggio estratto ma non ancora pagato. E un portavoce di Shell ha aggiunto che “hanno anche discusso delle potenziali aree di cooperazione una volta che le sanzioni saranno eliminate”. Interesse è stato mostrato anche da Statoil che vanta un credito di 600 milioni con l’Iran e che ha partecipato allo sviluppo delle fasi 6 e 8 del maxi-giacimento gas di South Pars, che producono 75 milioni di mc.
Dopo il 14 luglio, Saras è stata contattata dall’Iran per la ripresa dei contratti legati al petrolio in modo da essere pronti quando le sanzioni saranno tolte. Il vicepresidente esecutivo e direttore generale della società, Dario Scaffardi, si è mostrato ottimista su una ripresa della produzione oil iraniana: “Saranno in grado di riprenderla velocemente e in modo efficiente”, ha detto.
Del resto l’Iran, con 34 mila miliardi di metri cubi, è il primo Paese al mondo per riserve provate di gas e, con 157 miliardi di barili di petrolio, è al quarto posto per il greggio. Detiene quindi il 10% delle riserve mondiali di petrolio e il 17% di quelle di gas.
Il Paese ha già aumentato la produzione di petrolio di circa 500.000 barili al giorno e nel giro di poche settimane potrebbe aumentarla ancora fino a circa 1 milione di barili in più al giorno. L’obiettivo è riportare la produzione ai livelli precedenti alle sanzioni sull’esportazione imposte nel 2012, quando era il secondo produttore di petrolio dell’Opec.
A fine luglio il viceministro del Petrolio, Hossein Zamaninia, ha parlato di 50 progetti oil&gas dal valore complessivo di 185 miliardi di dollari da far partire entro il 2020. E il viceministro dell’Economia iraniano, Mohammad Khazaei, ha annunciato che “stiamo assistendo già da ora a un ritorno degli investitori europei nel Paese” e “alcune operazioni sono state già portate a termine”. “Nelle ultime due settimane”, ha detto, “abbiamo approvato più di 2 miliardi di dollari di progetti in Iran di compagnie del Vecchio Continente”.
E tuttavia non è oro tutto ciò che luccica. Ci vorranno miliardi di dollari di investimenti per far ripartire la produzione dopo 10 anni di stop e molto dipenderà anche dai tempi di avvio dei nuovi progetti, come ha ammesso lo stesso Descalzi. Il tutto stando a guardare l’andamento del prezzo del petrolio. Le maggiori esportazioni da parte dell’Iran faranno aumentare l’offerta di prodotto in un mercato già inondato, con il conseguente ulteriore calo del prezzo del greggio. Il rischio è che si disincentivino gli investimenti facendo sprofondare il mercato petrolifero a livello mondiale.
Inoltre, la rivalità storica tra Arabia Saudita e Iran, da sempre in concorrenza sia per l’egemonia produttiva sia per la leadership geopolitica, potrebbe inasprirsi. Nel mondo musulmano Teheran è il punto di riferimento dei fedeli sciiti e rivendica una leadership nell’area, in aperta concorrenza con l’Arabia Saudita, di credo sunnita. Gli equilibri potrebbero cambiare rapidamente e bisogna vedere in quale direzione.