Il sommo poeta che gioca coi numeri (I):
“Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque”.
È un brano tratto dal trentatreesimo canto del Purgatorio (vv. 37-45). “Non rimarrà per sempre (tutto tempo) senza erede l’aquila (aguglia) che ha lasciato le penne sul carro [della Chiesa], divenuto per questo mostro e quindi preda” [Purg. XXXII, 142 sgg.], scrive Dante, “perché io vedo chiaramente, e perciò lo racconto, stelle già vicine a consegnarci (darne) un tempo, incuranti (secure) di ogni intoppo e di ogni sbarramento (sbarro), nel quale un cinquecentoquindici, messaggero di Dio, ucciderà la meretrice (fuia) e quel gigante che con lei delinque”.
È ben nota l’ossessione di Dante per i numeri, strutturata in un sistema di stratificati e pregnanti valori simbolici. Questi valori, dalla Vita nova alla Commedia, si ramificano, s’infittiscono, si compenetrano d’una maggior forza d’insieme. Alcuni sono più palesi; altri, sottili o sottilissimi, muovono a una tripla lettura, orizzontale, verticale, incrociata. La Commedia si fa così, ripetutamente, da testo tramato in superficie, sottotesto e pretesto, intertesto e ipertesto; il primo grande ipertesto, anzi, della storia della letteratura occidentale, che duplica ma senza realmente occultare.
Quando il poeta mette in guardia il lettore, quando lo avverte che, se vuol realmente capire, dovrà andare a fondo, il lettore non può perciò sottrarsi e deve raccogliere la sfida. Dante, che l’aveva già messo alla prova in Inf. IX, 61-63 (“O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani”), in Purg. VIII, 19-21 (“Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / che ’l velo è ora ben tanto sottile, certo che ’l trapassar dentro è leggero”) e in Purg. IX, 70-72 (“Lettor, tu vedi ben com’io innalzo / la mia matera, e però con più arte / non ti maravigliar s’io la rincalzo”), lo fa ancora qui, subito dopo quel «cinquecento diece e cinque» che ha messo in difficoltà gli interpreti danteschi di ogni epoca e scuola: “E forse che la mia narrazion buia, / qual Temi e Sfinge, men ti persuade, / perch’a lor modo lo ‘ntelletto attuia; / ma tosto fier li fatti le Naiade, che solveranno questo enigma forte / sanza danno di pecore o di biade” (vv. 46-51). Forse il mio oscuro racconto ti convince poco perché ottunde (attuia) l’intelletto, dice Dante, come i racconti di Temi e della Sfinge; presto saranno però i fatti a svolgere il ruolo che fu delle Naiadi, risolvendo questo arduo enigma senza perdita di pecore o di biade. In realtà le Naiadi, ninfe dei fiumi, non scioglievano enigmi: il poeta scambia qui Naiade per Laiade, cioè per quell’Edipo (figlio di Laio) che aveva risolto l’indovinello della Sfinge, posta a guardia dell’ingresso alla città di Tebe e suicidatasi dopo l’impresa dell’eroe. Le pecore perdute sono quelle divorate dalla fiera inviata nella città greca da Temi, dea della giustizia, erroneamente identificata da Dante con una inesistente profetessa autrice di enigmi, sdegnata dal fatto che le Naiadi riuscissero a decifrare i suoi criptici oracoli; del popolo tebano la dea Temi, per vendicare la morte della Sfinge, aveva anche distrutto i pascoli.
Torniamo al «cinquecento diece e cinque». Attribuendo ai tre numeri la lettera latina corrispondente (cinquecento = D; dieci = X; cinque = V) si ottiene la parola DXV. Intesa da alcuni come una sigla, per Domini Xristi Vicarius («vicario del signore Gesù Cristo»), Domini Xristi Vertagus («levriero del signore Gesù Cristo»), Dei Xristi Verbum, ecc., è stata riletta da molti come DVX, e cioè DUX; saremmo così tecnicamente di fronte a una ipsosefia, quel fenomeno che vede un valore numerico per l’appunto abbinato a due diverse sequenze di caratteri. Con un ragionamento analogo si potrebbe attribuire il valore numerico 1 e rileggerlo come I, come già fece Gabriele Rossetti, all’articolo indeterminativo che precede “cinquecento diece e cinque”, e poi disporre in un diverso ordine le cifre che compongono la sequenza risultante:1 (I) + 500 (D) + 10 (X) + e (E) + 5 (V) –> IDXEV –> IVDEX –> IUDEX.
Ma chi è il messaggero divino celato sotto il «cinquecento dieci e cinque»? Lo scopriremo alla prossima puntata.
di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani