Per colpa di Dagospia ho letto un articolo uscito ne L’Unità. E’ una responsabilità che Dago ha spesso: se non li pubblicasse non li leggerebbe nessuno. Neanche i giornalisti stessi de L’Unità, che – giustamente – sono quasi sempre i primi a vergognarsene.
Il delirio livido di Sergio Staino contro Gianni Cuperlo è già stato stigmatizzato da più parti. Frasi come “Renzi è quanto di più progressista si possa avere in Italia in questo momento storico” e la leggendaria “state uccidendo la sinistra” (rivolta a Cuperlo: mica a Renzi) sono un mix tra stalinismo e follia che renderebbe felice tanto Zdanov quanto Basaglia.
Travaglio ha ricordato che Staino era così anche prima: non è cambiato lui, ma il padrone a cui obbedire. Staino, se non altro, ha il merito di avere sempre esternato questo suo insopprimibile stalinismo. Merita solidarietà: per uno convinto di aver fatto satira fino a ieri, ridursi ultrà di Faraone e Orfini è un contrappasso oltremodo doloroso. Gli siamo vicini. Staino, del resto, è sempre stato un Altan con meno talento e contenutisticamente “catto-comunista”. Il suo Bobo, se potesse, si dissocerebbe dal suo stesso autore per chiedere a Vauro di farsi disegnare da lui.
Travaglio ha raccontato di quando, con fiero piglio dogmatico, Staino rampognò anni fa Sabina Guzzanti per avere osato imitare l’inattaccabile – e si presume sacro – D’Alema. Già questo dà la misura dell’apertura mentale del “satirico” Staino. C’è però un altro aspetto che, se possibile, mette ancora più tristezza. Più passa il tempo e più penso, da uomo di sinistra (e dunque in questo distante da Marco), che abbiamo avuto anche noi la colpa di sopravvalutare tanti “intellettuali”. Nanni Moretti, quello che ieri faceva i girotondi e oggi è più pigro, diceva che non si poteva pretendere molto da leader politici “cresciuti con Happy Days”. Si può però asserire lo stesso di larga parte dell’intellighenzia sinistrorsa. La quale, anche dieci e venti anni fa, era già – troppo spesso – fastidiosamente ortodossa, contenutisticamente banale e intellettualmente esangue.
Ho conosciuto Staino anch’io. Persona educata, garbata, piacevole. Avevamo appena visto, al Teatro Puccini di Firenze, uno spettacolo di Giulio Casale ispirato a Fernanda Pivano. Credo fosse il 2010. Andammo poi a cena. Quando Casale e io osammo palesare la nostra stima per Gaber, Staino ci crivellò definendo il Signor G “populista” e “qualunquista”. La solita accusa, bolsa e vile, con cui i polli di allevamento – e L’Unità stessa, con un articolo imbarazzante di Luca Canali – insultarono a più riprese uno dei più grandi pensatori italiani (con l’inseparabile Sandro Luporini) del Novecento. Per nulla stupito, chiesi allora al compagno Staino quali “intellettuali” lo stimolassero in quel periodo. La sua risposta, lungi di nuovo dallo stupirmi, fu emblematica: “Mi piace molto Jovanotti, la sua ultima canzone per il bel film di Muccino (Baciami ancora, NdA) è straordinaria”. Capito? Per Staino, uno dei tanti renziani prima ancora che arrivasse Renzi, gli intellettuali erano quelli: Jovanotti e Muccino. Di lì a poco, prima di lasciare nel 2011 La Stampa (che, per non farmi far danni, mi aveva nel frattempo spedito in giro per il mondo a scrivere di moto), Mario Calabresi mi fece lo stesso nome come grande intellettuale contemporaneo: “Jovanotti”. Mica Bobbio o Popper: Jovanotti. Sticazzi.
Ed ecco qual è forse il punto. Non tanto che gli Staino e i Lerner voterebbero Pd anche se inseguisse le stesse cose (anzi peggio) che inseguiva Berlusconi. Quello lo sapevamo già e lo vediamo ogni giorno. Il punto è che molti – non tutti – “intellettuali” e artisti cari alla sinistra italica, a conti fatti, erano culturalmente pavidi. Deboli. Anzitempo svuotati.
Qualche giorno fa ero in Calabria per un Premio Letterario a Caccuri. Posto, e contesto, meravigliosi. C’era anche Claudio Martelli, che – pur incarnando una sinistra da me assai distante – in confronto a questi pesci piccolissimi assurge come minimo a Churchill. Piccata oltremodo per le critiche al renzismo espresse da me e da lui, il sindaco (renziana) ha detto a tavola che “De Luca è il miglior sindaco d’Italia”. Poi è salita sul palco rivendicando di essere felicemente democristiana, scomunicando i reprobi (non usando questa parola perché non la conosce, ma il senso era quello) e dicendosi orgogliosa di appartenere al partito delle Boschi e delle Madia. Sperava di essere salutata da un’ovazione, ma ha ricevuto lo stesso apprezzamento del Principe Filiberto a Sanremo. Una scena meravigliosa. Qualcuno potrebbe pensare che, di fronte a cotanta smisurata pochezza politica, Staino e la sua claque di illuminati provino ora imbarazzo e si riducano a votarli quasi controvoglia. Al contrario: è la classe dirigente che si meritano. Si somigliano e dunque si pigliano. Staino non soffre nel votare la Boschi, non prova imbarazzo nel salvare Azzollini, non si vergogna all’idea di appoggiare chi sfascia la scuola pubblica: gli va bene così. E’ nell’ordine delle cose. Probabilmente, e sia pure in parte inconsciamente, ha sempre lavorato per uno scenario (asfittico) simile.
La colpa è anche nostra: credevamo che molti di loro fossero artisti, e addirittura “maestri”, quando spesso erano solo portaborse inconsapevoli. Di Pasolini e di Gaber, in Italia, ce ne son sempre stati pochi: gli Staino e i Jovanotti, al contrario, non sono mai mancati. Nel 1956 L’Unità (ancora lei) definì i ribelli ungheresi “teppisti”, “spregevoli provocatori” e “fascisti”. Alcuni, come Italo Calvino, si dimisero dal PCI. Altri, obbedendo al Lider Maximo Togliatti, appoggiarono la repressione sovietica. Ovviamente, di quella élite illuminata, faceva parte in prima fila anche Giorgio Napolitano. Così parlò Re Giorgio: “L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”. Osiamo immaginare, e non è certo arduo supporlo, che quello stesso Napolitano sia uno dei presidenti della Repubblica preferiti dal compagno Staino (e dall’intellettuale Jovanotti). Tutto si tiene, tutto si spiega. E se la sinistra italiana, ancor più dalla morte di Enrico Berlinguer in poi, ha quasi sempre deluso – per non dire fatto schifo – è anche perché i “maestri” erano spesso colpevolmente fedeli alla linea e culturalmente labili. E noi ce ne siamo accorti troppo tardi. O troppo tardi lo abbiamo voluto ammettere.