Omid scrive le sue lettere sotto un gazebo nella città di Jalalabad; pronunciare la parola libertà per Omid è una faccenda seria. È una responsabilità che implica militanza e che potrebbe finire con brandelli di carne bruciata esplosi in aria come virgulti.
Io sono Omid, mi scrive. Ho 18 anni. Mio padre è Ashaqullah, vivo in Afghanistan, nella provincia di Nangarhar. La lettera è un ponte verso l’Occidente. Le rivoluzioni possono dichiararsi come una battaglia o come epistole senza lance da issare, soltanto sillabe da battere in tastiera. I fronti di guerra sono ancora infuocati, noi abbiamo dimenticato le nostre bombe di pace, Omid appartiene a una generazione nata sotto il sibilo del napalm o di una mina, invece. La madre è morta due anni fa. Mi scrive su Facebook: aveva la tua età. È saltata in aria, una bomba talebana. I cattivi sono i talebani, talebani contro il califfato Daish.
Omid teme la sicurezza dei suoi, il padre Ashaqullah, nome che scandisce con orgoglio e pieno di compassione. Usa i social così, per raggiungere il mondo, fuori dal suo paese. Chi siete voi? Sembra chiedere e tuttavia lo fa. Chi siete voi di là da questo fuoco, da questo crogiolo di morti che non smette di crepitare? Vuole uscire dal suo Paese, frequenta l’università a Nangarhar, secondo semestre, medicina. Quindici chilometri da dove vive, li percorre a piedi. Non ha nemmeno una bicicletta, dice.
Suo padre non lavora, in una foto compare accovacciato attorno a un tavolo basso di pietra, di spalle si intuisce un rozzo canapè, sul banco primitivo ciotole di fagioli e riso. Forse è una festa di famiglia. Ogni festa si consuma nel tedio pesante del fronte che arde poco più in là. Omid vorrebbe diventare un medico. Lasciare il paese, raggiungere la Germania, la Francia, l’Inghilterra. Spedisce foto della sua vita definita da un gazebo, gli uomini della famiglia, le piane brulle gettate verso il nulla, oltre alcuni rilievi appena verdi, affatto rigogliosi.
I cardi rovinano sotto le ruote delle poche auto, lungo le strade per Kabul. Omid spedisce foto che lo ritraggono: in una di queste, è chino sui talloni, prossimo a un posto di blocco, kalashnikov, routine. Uomini vestiti di bianco vigilano a pochi metri da lui, bianchi come enormi avvoltoi avvincersi tetramente al di sopra, più bianchi della luna la notte, spiega Omid, sul sentiero verso Islam Kaleh. Le sue foto sono ancora un ponte. Da qui verso est stavolta. Come vivi Omid? Hai amici, Omid? No, scrive. Non posso, questione di sicurezza, qui – dice – essere giovani attiene a una questione di sicurezza. Traduco più o meno.
Omid puoi essere libero, a tratti, se vuoi, puoi scrivere la tua storia, propongo. Lui accetta. Non teme nulla. Sotto il gazebo si svolge una impresa maestosa, è la rivoluzione battuta in tastiera, mentre gorghi di sabbia colorano le ombre di stranissimi smalti, dirigendosi verso il deserto con il vento, fino al Seistan. Omid scrive una specie di epigrafe a margine di ogni nostra conversazione. Con la gravità del ricordo, è un perenne omaggio alla madre, scrive in inglese: “When i die, don’t come near to my body, because my hand may not be able to wipe your tears anymore”. Quando io muoio, non avvicinarti al mio corpo, perché la mia mano potrebbe essere incapace di asciugare le tue lacrime. Mom.
Mom, lo aggiungo io, lo immagino così, concentrato in questa lettera lapide, una lettera votiva, un cero al lutto, all’assenza consumata.
Certe volte Omid spedisce foto di sentieri alberati, con fiori esotici o di un rosso mai visto. Da Omid, scrive.
da il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2015