Gentile Vicedirettore,
accetto con estremo piacere il suo invito a contribuire alla discussione, particolarmente accesa, che il suo articolo ha sollevato. Ha la mia totale solidarietà per i toni e gli insulti che le sono stati rivolti nei commenti. L’analfabetismo al confronto di alcuni non rende, tuttavia, meno problematici diversi passaggi del suo testo.
Nello spazio di un post non mi riesce di mostrargliene più di una manciata tra quelli che a me paiono più macroscopici. Lascio a successivi scambi alcune riflessioni, pur dirimenti, circa il valore morale ed educativo di investire i propri talenti nel rispetto della propria natura, delle doti che si ritiene di possedere o di voler coltivare, in una parola in ciò che si ama (senza per questo sconfinare in paludosi romanticismi dal vago sapore new age o escludere riflessioni di tipo utilitaristico-razionale). Inoltre, sarebbe opportuno, prima o poi, spendere qualche considerazione circa l’origine, gli scopi e gli effetti di lungo periodo di stigmi che trovano come unico fondamento la profezia che essi stessi adempiono, come quello che da anni grava, solo in Italia, sui corsi in Comunicazione (mi permetto qui di sottolineare che, in questo, il suo pezzo è solo l’ultimo in ordine cronologico di una florida tradizione inaugurata anni fa da Bruno Vespa…).
Veniamo al punto. Trovo il suo post assai poco convincente e condivisibile, se non potenzialmente dannoso per chi si trova nella delicata fase dell’orientamento in ingresso all’università, per via degli ingredienti con cui l’ha assemblato: l’ipersemplificazione al profumo di verosimiglianza, e il paternalismo modello italico.
Il primo ingrediente si ottiene facilmente ogni volta che un emittente cede alla tentazione di condire con numeri una tesi-forte, che di fatto ha già assunto come vera: spesso i dati sono corretti ma decontestualizzati (ed è questo il caso), altre volte vengono mal letti o male interpretati (in parte è di nuovo questo il caso, come solo minimamente riconosce in nota), raramente (che non vuol dire mai e comunque non è questo il caso) sono addirittura manipolati o inventati fraudolentemente, dal ricercatore o dal divulgatore che li riutilizza.
Il paternalismo, per venire al secondo ingrediente, è quell’atteggiamento per cui l’emittente di cui sopra non solo non osserva con spirito scientifico il fenomeno che lo interroga (preferendo quindi derogare all’esercizio del dubbio sistematico) e nemmeno si limita a prendere atto in termini probabilistici di una relazione causale ma elegge la sua interpretazione a verità, dispensando indicazioni su come gli altri dovrebbero agire. In caso di inadempimento “poi sono fatti vostri”, come lei, caro Vicedirettore, scrive nel suo secondo post, parafrasando il più grande pensatore contemporaneo, l’on. Cetto La Qualunque.
Indizi eloquenti di entrambi gli ingredienti sono disseminati ovunque nel suo articolo, a partire dall’impostazione: non occorre un semiotico per verificare che l’intentio operis del paper che lei cita come fonte è significativamente distante dai contenuti che lei mette in forma sul suo blog. A una lettura anche piuttosto rapida è semmai evidente che le premesse, l’impostazione metodologica e l’interpretazione dei risultati condotta dai tre ricercatori si collocano in posizione specularmente opposta alla direzione che lei imprime al suo ragionamento (si prenda, a mo’ di esempio, quanto riportato a pag. 13 del paper a commento della fig. 4: “Students who, despite the overall NPV, decide to enrol in STEM could therefore be wealthier or more intelligent (or both)”).
Mi permetta, inoltre, di sottolineare che i dati dello studio non autorizzano alcuna inferenza sulla popolazione studentesca, oltre quelle documentate dagli autori, rendendo una frase come “I ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza”, null’altro che una sua opinione.
Infine, nel primo post, quello che ha sollevato il polverone polemico, lei parla per tre volte in poche righe di “facoltà”. Le facoltà sono state abolite dalla L. 240/2010, o peggio conosciuta come “legge/riforma Gelmini”. Il fatto che lei non sembri essersene accorto (nemmeno nel secondo post) è uno degli indicatori più eloquenti dell’ipersemplificazione cui ho fatto cenno sopra. Mi perdonerà se nelle poche righe che mi rimangono non argomento oltre i termini di un cambiamento che non è solo semantico.
La leggo con piacere da anni, seguo con passione e fedeltà il Fatto dalla fondazione, e questo piccolo spazio virtuale da cui le scrivo è per me un opportunità di cui vi sono riconoscente. È con la stima di sempre che mi permetto di dirle che una più ampia apertura alla complessità del fenomeno e un uso meno superficiale delle fonti avrebbero senza dubbio giovato alla discussione su un tema di grande e attuale interesse.
Con gli auguri di buon lavoro e aperto al confronto,
Giuseppe Tipaldo
Università di Torino