“Il Giappone ha inferto danni e sofferenze incommensurabili a persone innocenti durante la guerra….ma oggi l’80% della popolazione giapponese è nata dopo la guerra e i nostri figli e nipoti non debbono essere predestinati a scusarsi in eterno”.
Shinzo Abe, premier del Giappone, ha ragione. I giapponesi nati dopo la guerra, e forse anche la stragrande maggioranza di quelli nati prima e durante la stessa, non hanno nessuna responsabilità per le sofferenze provocate ai popoli asiatici “liberati” dal gioco coloniale e a loro stessi. Perchè oltre alle vittime causate in Cina, Corea, Indonesia, Birmania, Filippine e Malesia, non dimentichiamoci che oltre tre milioni di giapponesi hanno perso la vita per soddisfare le manie di grandezza di Sua Maestà Hirohito (poi graziato dagli Usa e morto nel suo letto dopo 40 altri anni) e dei suoi folli generali (solo sei dei quali furono condannati e giustiziati).
Il problema infatti non sono i giapponesi, ma chi li governa. Che sono sostanzialmente gli stessi – o i loro discendenti diretti – di chi li governava 70 anni fa. A cominciare, appunto da Abe.
Il problema delle “scuse” è in effetti di difficile comprensione per noi occidentali, abituati a lingue che prevedono una, al massimo due o tre parole per esprimerle. In italiano, “mi scuso”, “mi dispiace”. In inglese, “I am sorry”, “Excuse me”. Parole che usiamo a prescindere dal contesto, e dalla graviutà dell’atto per cui ci scusiamo. Il calciatore che sbaglia un cross urla “scusa” ai compagni, così come i leader tedeschi del dopoguerra hanno, e ripetutamente, chiesto “scusa” per l’Olocausto. Ma in Giappone, ed in generale nei paesi dove si usano i caratteri ideografici, la situazione è diversa. Esistono vari modi, almeno una decina, in giapponese, per esprimere le proprie scuse. Alcuni esprimono solo un sentimento superficiale, altri entrano nel propfondo, indicando pentimento, cordoglio assunzione di responsabilità. Come owabi e shazai, parole che appunto il premier giapponese ha deciso di non usare.
Ma se Cina e Corea hanno ora ulteriori elementi per alimentare la loro spesso strumentale polemica contro le mancate, vere, sincere “scuse” del Giappone ad essere davvero incazzati con il loro premier dovrebbero essere – e per quel che vale l’opinione di chi vive in questo paese da oltre trent’anni, moltissimi lo sono – i giapponesi. Che proprio per colpa del loro premier e dei suoi incubi di famiglia, continueranno a pagare, per chissà quanto tempo ancora, per colpe non loro.
Per capirci qualcosa, in questo psicodramma più familiare che politico, bisogna sapere chi è Shinzo Abe e la storia della sua famiglia. Suo nonno materno, Nobusuke Kishi, era uno dei ministri più potenti prima e durante la guerra, uno dei collaboratori più fidati del generale Tojo. Ma a differenza di quest’ultimo, che venne impiccato dopo un processo farsa inscenato a Tokyo sul modello di Norimberga, Kishi se la cavò. In cambio – si dice – di importanti rivelazioni e consegna di documenti segreti (pare concernenti gli esperimenti compiuti in Manciuria dai giapponesi con armi batteriologiche sui prigionieri di guerra vivi ), venne prima prosciolto, poi “riabilitato” e infine, nel 1960, divenne addirittura primo ministro.
Fu proprio Nobusuke Kishi a sostenere e poi firmare a Washington, mentre il parlamento giapponese era riunito di notte protetto dalla polizia che a stento impedì a migliaia di manifestanti di occuparlo, il Trattato di Sicurezza con gli Stati Uniti. Simbolo dell’ambiguità che ancora oggi lega indissolubilmente e morbosamente due paesi e due popoli storicamente e culturalmente inconiugabili e che, nel migliore dei casi, si detestano. Ma il Giappone all’epoca era appena uscito dall’occupazione, che oltre ad aver imposto una Costituzione formalmente “pacifista”, aveva di fatto rimesso in circolazione una classe politica corrotta, arrogante e hazukashikunai, “senza vergogna”. Che in Giappone è molto peggio di essere – o quanto meno sentirsi – senza colpa. Una casta che di fatto è ancora al potere, anche se oramai ancora per poco.
Quello che pochi sanno – o ricordano, anche sulla stampa locale – è che Shinzo Abe oltre a questo nonno ingombrante e voltagabbana, aveva anche un altro nonno, quello paterno. Si chiamava Kan Abe, e anche lui proveniva dalla prestigiosa Università Statale di Tokyo, la Todai. Candidato alle prime elezioni a suffragio universale (maschile…) del 1928, non venne eletto e decise subito di ritirarsi dalla politica nazionale. Una persona seria, insomma.
E mentre l’altro nonno, Nobusuke Kishi, occupava e saccheggiava la Cina creando lo stato fantoccio della Manciuria con l’imperatore Pu Yi (ricordate l’Ultimo Imperatore di Bertolucci?) Kan Abe faceva il sindaco della piccola cittadina di Yamaguchi, nel centro del paese, tutt’ora “feudo” elettorale della famiglia Abe-Kishi. E da lì, inascoltato e deriso, conduceva una fervente campagna antimilitarista. Al punto che quando il poco più che ventenne primogenito Shintaro (padre dell’attuale premier Abe) gli si piazzò davanti sull’attenti – come si usava all’epoca – comunicandogli che aveva deciso di presentarsi volontario nei Tokkotai (quelli che noi chiamiamo kamikaze)lo prese a ceffoni dicendogli che la guerra era oramai persa, che stava comunque per finire e che la famiglia ed il paese avevano bisogno di figli e giovani vivi, non di eroi morti. Shintaro se ne fece una ragione e dopo una brillante carriera giornalistica nell’immediato dopoguerra, si candidò al Parlamento diventando Ministro degli Esteri negli anni’80.
E fu proprio durante un discorso ufficiale in Corea del Sud che disse: “abbiamo combattuto una guerra stupida, quindi siamo stati stupidi”. Nel 1992 stava addirittura diventando primo ministro. Ma venne coinvolto indirettamente da uno dei tanti scandali di tangenti (Recruit) e fu costretto a ritirarsi. Molti sostengono che fu coinvolto appositamente, e forse ingiustamente, proprio per stroncargli la carriera politica. Assieme ai socialisti, all’epoca ancora molto forti, stava infatti lavorando ad un governo di coalizione che poi si sostanziò comunque nel 1994 con l’ascesa al potere del leader socialista Tomiichi Murayama, al quale si deve la dichiarazione di “colpevolezza” e di “pentimento”forse più sincera ed efficace mai fatta da un governo giapponese. Se Shintaro Abe non fosse stato travolto da quello scandalo, forse oggi parleremmo della “dichiarazione Abe”, anziché della “dichiarazione Murayama”. Ma tant’è.
Viene da chiedersi come mai Shinzo, l’attuale premier, abbia preso tutto da suo nonno materno e nulla dall’altro nonno e da suo padre. Le cronache di famiglia – narrate recentemente in un libro da un altro figlio, più giovane, il senatore Nobuo Kishi – spiegano che essendo Shintaro lanciato nella carriera giornalistica, aveva poche possibilità di passare del tempo con il figlio Shinzo, che finì così per crescere ascoltanto le “favole” e i ricordi patriottici del nonno. Che evidentemente continuano ad affascinarlo. Ecco perchè Shinzo Abe non riesce a “divincolarsi” dal passato. Tutto nasce da un nonno troppo presente e da un padre assente.
Ma nessun problema: come ha spiegato lui stesso nel suo solenne discorso, l’80% dei giapponesi è nato dopo la guerra. Quando saranno spariti – quanto meno dalle istituzioni – anche gli ultimi superstiti di un passato che non passa, il Giappone, e i suoi vicini, saranno finalmente al sicuro. Non c’è popolo più pacifista al mondo, oggi, dei giapponesi. A partire dal loro attuale Imperatore, Akihito, che da quando il Tempio Yasukuni – simbolo della pace e dell’armonia – ospita anche le anime di alcuni criminali di guerra (1978), non vi ha più messo piede. Nè lui, né la sua famiglia. Essendo il “simbolo” del popolo giapponese, significherà pur qualcosa.