In risposta agli ultimi due interventi di Stefano Feltri (qui e qui).
Ciao Stefano,
mi scuso in anticipo per la lunghezza del pezzo, ma nella speranza di stimolare costruttivamente il dibattito, approfitto del privilegio di accedere al tuo giornale per provare a fornire una diversa chiave di lettura alla questione sul percorso universitario più “utile” ai giovani.
Ho dieci anni più di te, come te sono modenese, e nel 1998 mi sono laureato con lode in Scienze Statistiche ed Economiche all’Università di Bologna (il massimo che i miei potevano permettersi). Ho quindi lavorato per quindici anni in un paio di gruppi bancari nazionali, occupandomi con risultati meritori (a soli 32 anni ero già funzionario, grado spesso “elargito” in fase di prepensionamento, un po’ come premio alla carriera e soprattutto per gonfiare la busta) di tematiche assai attuali e a complessità crescente: sistemi di governance societaria, sviluppo del personale, diagnosi e politica retributiva, performance management, pianificazione strategica, capital management, M&A.
Una sera dell’anno scorso ho deciso che – almeno per me – tutto ciò poteva bastare. Così, in un modo intenzionalmente repentino, la mattina dopo non mi sono presentato in ufficio. E… non l’ho più fatto.
Sbarre aperte e nuova vita davanti. Ma no, non per fuggire all’estero (perché per essere un “cervello in fuga”, lo so, bisogna che prima un cervello ci sia…), né per aprire un chiosco di piadine sulla spiaggia o per vivere in un capanno in mezzo al bosco: tutte scelte molto romantiche (e indubbiamente mediatiche), ma estranee al mio concetto di libertà. Che, ad esempio, mi consente senza indugi di scriverti questo pezzo.
Era invece giunto il momento di curare al meglio il tempo che ho a disposizione, smettendo di svenderlo a chi ha come unico obiettivo la bottom-line del proprio conto economico, e dedicandolo a progetti di interesse più collettivo e gratificante. Sono talmente nauseato dalla follia che anima l’attuale mentalità formativa e professionale, diretta erede di quella subcultura interamente fondata sul dogma dell’utilità monetaria, che ho deciso di raccontare le ragioni e gli effetti di quella scelta nel mio primo, piccolo libro. Una delle conseguenze, per esempio, è l’onore di trovarmi adesso qui, a poter scrivere su quello che considero il miglior quotidiano italiano: una cosa che prima, rientrando a casa ogni sera dopo le otto, con relativa zavorra di beghe lavorative, non avrei mai potuto fare (certamente non con la libertà intellettuale che posso concedermi adesso). Un’altra conseguenza è l’aver incontrato in pochi mesi una trentina di gruppi e associazioni che da tutta la penisola si sono fatte avanti per ospitare un mio intervento e ascoltare i contenuti di quel volumetto: ti garantisco che, per chi a quarant’anni si appresta a riprogettare la propria vita dalle fondamenta, non esistono valori medi attualizzati per monetizzare una risposta del pubblico come quella! A scanso di equivoci, lo specifico subito: non sono un figlio di papà. Io e la mia attuale famiglia, con cui certe scelte si ponderano sempre fino all’ultimo centesimo, sopportiamo quotidianamente il peso di un destino diventato adesso ovviamente molto più incerto.
Non è certo mia intenzione farti cambiare idea, Stefano. Avendo tu studiato in SDA (il tempio sacro della cultura ultraliberista ispirata al monoteismo della Crescita: è per questo – visto che te lo chiedi – che molti storcono il naso), so bene come i presupposti di partenza tuoi e miei siano concettualmente agli antipodi. Quello che però spero ugualmente di riuscire a fare è indurti a mettere in discussione, anche solo per un attimo, la fondatezza aprioristica dell’equazione reddito monetario = utilità. Si può vivere con molto meno di quanto ci abbiano fatto credere che ci serva: è da qui che bisogna (ri)partire.
Sono esistiti fior di economisti (che alla Bocconi certo vi tenevano nascosti) che, come finalità ultima dell’economia, sostituivano all’utilità monetaria il benessere delle persone. Economisti ecologici. O, come il loro caposcuola stesso si autodefiniva, bioeconomisti. Non erano “fricchettoni 2.0” che vivevano in falansteri, praticavano l’amore libero e si nutrivano di bacche, ma erano i controcazzutissimi autori di modelli econometrici la cui completezza e complessità non ha nulla da invidiare alla modellistica degli economisti neoclassici, anzi. Essi postulavano che l’essere umano sia animato da un sistema di preferenze non esclusivamente deterministico e razionale, ma che altre componenti – specialmente di natura emotivo-relazionale – concorressero al benessere di una persona. E’ un concetto molto più profondo e impattante di quello degli spiriti animali keynesiani (che si limitano semplicemente a contemplare le determinanti irrazionali di molte nostre scelte): per loro, il tempo libero valeva molto più del denaro.
Inoltre – e in anticipo su chiunque altro – impostarono la loro modellistica sul rispetto degli ineludibili vincoli naturali che il nostro habitat ci impone: ogni attività economica è infatti ascrivibile all’interno della fenomenologia naturale e, come tale, implica un deterioramento delle dotazioni di energia e di materia che abbiamo a disposizione. Questi giganti del pensiero sono stati semplicemente accantonati dalla storia perché il loro messaggio, orientato a una rimodulazione della domanda aggregata anziché al compulsivo efficientamento di un’offerta non più drenabile (per fortuna), era in palese contrasto al pensiero unico dominante dal Dopoguerra ad oggi.
Conservare ed ostentare un atteggiamento mentale illuministico e antropocentrico ha ormai la stessa attualità storica che cercare Drive-in alla domenica sera su Italia 1: gli anni Ottanta sono finiti da un pezzo. Allo stato attuale delle conoscenze e degli studi in materia, non possiamo infatti più permetterci di ignorare, ad esempio, che due giorni fa (con ulteriori sei giorni di anticipo sull’anno scorso) è stato l’overshoot-day 2015, il giorno cioè in cui l’umanità esaurisce le risorse rigenerabili del suo Pianeta.
Quello che sto cercando di dirti, Stefano, è che non possiamo continuare a fingere che sia ancora tutto come prima. Che cioè un buon posto di lavoro e due soldi in banca ci diano il diritto di pensare e fare quello che abbiamo sempre fatto, solo perché faticosamente studiato su anacronistici manuali universitari. O che tutto il mondo risponda a logiche rigidamente sequenziali. O che la Natura, compresa quella umana, proceda in modo lineare (molto più spesso, lo fa invece in modo circolare: il conto cioè arriva sempre). O, per tornare al tema, che si scelga una facoltà soltanto in funzione della sua profittabilità economica.
Stanno finalmente affermandosi valori e modelli culturali che sono metamonetari e che – anche se nella ostinata indifferenza generale – andranno presto curati e tutelati addirittura più dei primi. Nella prefazione a uno dei più bei testi di quello che considero il maggiore intellettuale del secolo scorso, Ivan Illich, si legge:
Il nostro errore è quello di aver abdicato la nostra responsabilità personale di pensare e di agire per le nostre vite a vantaggio degli “esperti” che lavorano in queste nostre istituzioni. L’errore degli esperti è quello di non considerare le conseguenze inattese, gli elementi della natura umana che rendono vana qualsiasi pianificazione accuratamente studiata, qualsiasi intervento sistematico, specie quelli meglio intenzionati. […] L’ethos della “non sazietà” è alla base del depredamento sistematico della natura, della polarizzazione sociale e della passività psicologica.
Facciamo in modo che questa benedetta Crisi ci insegni almeno a valutare il presente, e soprattutto il futuro, con un set valoriale diverso, più variegato, rispettoso delle nostre attitudini umane, attento a quelle creative e meno suddito di quelle tecnico-specialistiche. Perché è solo uscendo dalle gabbie mentali precostituite che potremo immaginare – e costruire – un futuro più gradevole.