Tempi produttivi decisamente lunghi, ma del resto è lui stesso ad affermare “a volte mi godo un po’ la depressione” in “Come stai”, quarto brano nella scaletta del nuovo lavoro discografico. Un album nato con un progetto di crowdfunding e che difatti riporta al suo interno i nomi di tutti i piccoli, medi o grandi finanziatori che hanno scelto di supportare la nuova scommessa musicale di un cantautore i cui testi trascinano in un immaginario che ha dir poco dell’originale: “Ieri ho comprato un brivido, oggi ho venduto due zanzare; un cruciverba stupido mi ha quasi fatto naufragare” recitava una delle strofe di Bruciare, giocando non senza una certa sicurezza sul filo del corto circuito letterario.
È con brani come “Macchina” che si entra appieno nel cuore e nelle reali intenzioni di questo nuovo lavoro di Babalot: un disco finalmente e autenticamente pop, dagli arrangiamenti molto curati e non senza una certa ricerca, tanto timbrica quanto armonica. Un disco che, oltre alla tipica vena cinico-sarcastica che da sempre connota tanto i testi quanto la musica del nostro, presenta veri momenti di malinconica amarezza, come nello struggente ritornello di “Pranzo”, brano numero sette dei nuovi quattordici pezzi che formano Dormi o mordi.
Un disco che, oltre al sostegno economico di amici, familiari e supporter di vario genere, si avvale della collaborazione degli storici compagni di viaggio: Devor De Pascalis al basso, Lorenzo Mancini alle chitarre e ai fiati, Thomas Longhi al pianoforte, alla fisarmonica e nuovamente alle chitarre. A mancare è invece Francesco Benincasa, in arte Chantalle (poi Pootsie), in primissima fila nell’originario gruppo dei Babalot, scioltosi il quale (appena dopo la pubblicazione del primo disco, Che succede quando uno muore – Aiuola Dischi, 2003) il nome resterà, titolando tutta la sua successiva produzione, al siciliano Sebastiano Pupillo.
“La gente è sempre drogata, la gente ha visto Gesù, che un tempo aveva la barba e adesso non ce l’ha più”, recita “La gente”, brano nel quale i fiati e il pianoforte creano un’introduzione che potrebbe benissimo commentare qualche scena de L’Atalante di Jean Vigo; un brano che, nonostante l’alternarsi di una cupa sezione strofica a un ritornello invece dai toni decisamente vivaci (arricchito anche dall’insieme dei leggeri e spensierati coretti maschili), mostra una forte coerenza interna, una forza tale da consentire al testo di emergere in tutta la sua potenza evocativa e comunicativa.
Un album maturo, un disco in cui molti dei brani che lo compongono potrebbero (o dovrebbero?) tranquillamente commentare le nostre giornate all’interno di negozi e centri commerciali, passando in radio più, meglio e a maggior ragione dei tanto blasonati ma fin troppo sopravvalutati Jovanotti o Ligabue nazionali: un disco che parla a tutti senza esclusione di colpi, sincero, fresco, ironico ma sempre pungente. Un disco, infine, che oltre a far riflettere ci costringe a individuare quella parte malfunzionante dell’ingranaggio discografico che spesso e volentieri costringe i migliori in periferia, sospingendo i peggiori al centro della scena. Ma a noi piace restare sulle cose belle, ed è perciò che ci salutiamo ascoltando insieme il brano di apertura di questo nuovo gioiellino discografico: “Riccardo”.