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Gli effetti della strategia dell’Opec per contrastare i produttori americani di petrolio e gas intrappolato da strati di scisto (shale), si stanno rivelando analoghi al waterboarding. Rifiutandosi a novembre scorso di tagliare la propria offerta di greggio per sostenere i prezzi mondiali, sauditi e alleati avevano messo nell’angolo i frackers, i petrolieri che ricorrono al fracking, il costoso processo di frattura idraulica degli scisti (strati rocciosi) per estrarre gli idrocarburi. Le aspettative di una riduzione della produzione aveva riportato il prezzo del Brent verso i 70 dollari al barile. I frackers ritrovavano il respiro.

Poi nell’estate la dinamica dei prezzi è stata scossa da tre fattori: a) lo scoppio della bolla cinese che ha indebolito ulteriormente quell’economia ad altissima intensità energetica; b) l’accordo sul nucleare iraniano che riapre ai Persiani i mercati; c) la persistente debolezza dell’economia europea.

L’equilibrio di lungo periodo sui mercati energetici verrà determinato dallo scontro tra frackers e sceicchi, da un lato la capacità dei frackers di attirare capitali sufficienti e dei loro progressi tecnologici e dall’altra la sostenibilità delle finanze pubbliche saudite.

Il bilancio pubblico del regno wahabita per il 2015 prevede spese per 229,3 miliardi di dollari a fronte di entrate pari a 190,7 miliardi. Il deficit di 38,6 miliardi di dollari equivale a circa il 5% del Pil. Non è dato sapere su quale prezzo del petrolio si basino le stime delle entrate, né si conosce in dettaglio la scomposizione dei capitoli di spesa, per cui queste cifre vanno considerate indicative.

La copertura del deficit può essere effettuata con le riserve accumulate durante gli anni dei prezzi petroliferi a tripla cifra. L’Arabia Saudita non ha un fondo sovrano o un fondo di stabilizzazione come gli altri paesi del Golfo. Le sue riserve sono gestite dalla Saudi Arabia Monetary Agency (Sama), la banca centrale del regno. Gli attivi netti della Sama a fine 2014 ammontavano a 724,3 miliardi di dollari di cui i depositi del governo costituivano 416,2 miliardi. A questo tesoro vanno aggiunti gli attivi dei fondi pensione e di investimento pubblici, circa 335 miliardi di dollari. In totale oltre 750 miliardi di dollari che potrebbero essere usati per sostenere il bilancio pubblico. Quanti anni di vacche magre si possono attraversare?

Se assumiamo che il prezzo del petrolio in grado di assicurare il pareggio di bilancio dell’Arabia Saudita sia 98,5 dollari al barile e che il bilancio del 2015 si basi su una previsione di 60 dollari al barile per il greggio Opec, con 416 miliardi di dollari le finanze del regno possono andare avanti per quattro anni e mezzo. Se usano tutti i 750 miliardi superano gli otto anni. Se il prezzo del greggio Opec scendesse a 40 dollari al barile comunque il deficit sarebbe sostenibile per un periodo tra i 2 ed i 4 anni.

Ma questi calcoli non considerano l’eventualità che l’Arabia Saudita emetta debito. Nell’attuale fase di tassi d’interesse rasoterra l’Arabia Saudita pagherebbe sulle emissioni in dollari un tasso presumibilmente molto inferiore ai ritorni sullo stock di attivi pubblici investiti in un portafoglio globale. Per questo il Tesoro saudita ha annunciato un’emissione da 27 miliardi di dollari tanto per testare il mercato. In sostanza il regno saudita potrebbe reggere tranquillamente tutti gli scossoni dell’economia globale per un periodo di almeno dieci anni fintanto che il differenziale tra ritorni sugli investimenti e tassi passivi sul debito rimanga positivo. Difficilmente il waterboarding per i frackers finirà molto presto.

il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2015

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