In una pizzeria, difficilmente si ordinerà un sushi, in un ristorante giapponese non si ordinerà una pizza. Quando in un’edicola non si trova il giornale preferito, spesso si rinuncia a comprarne un altro (pur non conoscendo il contenuto del “nostro” giornale, del quale evidentemente ci fidiamo a prescindere). Nella televisione accade un processo simile: noi guardiamo i singoli programmi, ma nei fatti scegliamo la “nostra” rete. Appena si accende la Tv, si pigia il tasto della rete preferita, che spesso corrisponde a uno dei primi nove numeri posti nel telecomando (è la nota “dittatura” dei primi nove canali!). È finalità della rete mantenere il “legame” con il proprio pubblico grazie ai singoli programmi, e all’ordine con il quale sono trasmessi (il palinsesto), e ciò rinsalda la relazione fra pubblico e rete. Una volta creato questo feeling, una volta che la rete riesce a rafforzare il suo brand, ogni programma della rete ha una base di partenza che è l’ascolto medio della stessa rete, e talvolta, nel caso di buoni programmi, ottiene un premio d’ascolto ancor più superiore. Situazione inversa accade quando il programma è “fuori linea” (come può essere un film horror nel pomeriggio di Rete4 o Rai1); in questo caso il programma potrebbe essere più penalizzato e la rete perderebbe la sua immagine.
Quanto descritto è, in sintesi, il fenomeno dell’identità di rete (o immagine percepita o linea editoriale), un tema ben conosciuto dagli esperti di televisione. L’identità della rete è una sorta di “filosofia”, un complesso e articolato sistema di valori che pervade l’intera programmazione, cha va dai generi preferiti, al linguaggio, ai contenuti. Dare una “anima” alla rete è un’operazione che non tutti i professionisti riescono a compiere. Si tratta di modulare l’offerta su un pubblico che cambia continuamente. Si tratta poi di allargare il consenso su fasce di pubblico similari, senza rischiare di perdere i propri aficionados.
C’è un’anima difficilissima da scoprire. È l’anima del servizio pubblico. Esiste veramente? Non è descritta in alcun manuale, e spesso la s’intuisce meglio in negativo: guardando gran parte dei Tg, i talk pomeridiani e i giochini all’ora di pranzo e nel preserale, vedendo i soliti vecchi presentatori e giornalisti. Combinare la qualità di una programmazione innovativa con la quantità degli ascolti è opera difficilissima.
Nella storia della televisione (pubblica) si ricordano tre fenomeni. Ci fu il caso di Massimo Fichera negli anni ottanta con la sua “anarchica” Seconda Rete (la rete di Arbore, di Benigni, di “Processo per stupro”); di Angelo Guglielmi negli anni novanta con Raitre (una riuscita miscela di spettacolarizzazione di tematiche sociali), di Carlo Freccero negli anni duemila con la sorprendente Raidue. Vi sono stati anche periodi felici negli anni sessanta-settanta con la prima rete democristiana.
I risultati raggiunti dipendono innanzitutto dalle straordinarie capacità delle persone citate, ma il loro successo è stato raggiunto grazie all’autonomia di cui hanno goduto, autonomia che i vertici dell’epoca (direttore generale e presidente) hanno garantito.
I fenomeni citati sono pochissimi; nella storia della Rai vi sono stati lunghi cicli di ordinaria gestione, senza lode e infamia; mentre più spesso, in particolare in periodi recenti, la programmazione (e soprattutto l’informazione) è scaduta a livelli proprio bassi. Sono tanti i vertici dei quali si è presto persa la memoria.
Chissà se il nuovo vertice della Rai proverà a cercare e a trovare l’anima di un nuovo moderno servizio pubblico? Quale Rai avremo fra poco, invedibile, prona al potere, oppure una buona e onesta Tv?