Nei giorni scorsi si è acceso un ruvido dibattito sull’utilità o meno dell’iscrizione agli studi universitari di tipo umanistico. L’argomentazione che ha acceso le micce è stata sollevata dal vicedirettore de il Fatto che ha invitato i futuri studenti universitari e le relative famiglie a valutare con prudenza la scelta di intraprendere studi in campi umanistici. Lo spettro che è stato fatto balenare è quello di un incremento molto consistente di probabilità di rimanere disoccupati o di ricevere alla fine di onerosi studi un reddito, nel migliore dei casi, molto prossimo a quello di un operaio non specializzato. Sono seguite a questo intervento reazioni molto critiche che hanno mostrato dati alla mano come studiare è comunque sempre un investimento in termini sia economici che occupazionali.
Un argomento che vale forse la pena di aggiungere al dibattito in corso riguarda la cosiddetta utilità dello studio universitario. I critici e i detrattori degli studi umanisti utilizzano per demonizzare la scelta di intraprendere studi superiori in questo ramo di conoscenza unità di misura di tipo prevalentemente quantitativo: il maggiore guadagno di chi decide di studiare materie tecnico scientifiche, la più alta probabilità di occupazione, la possibilità per i giovani di essere prima autonomi dalla famiglia, eccetera. Tutte argomentazioni che devono fare riflettere sulla effettiva importanza di una decisione che può influire in modo radicale sulla vita delle persone.
Quello che i fautori della diffusione degli studi tecnico scientifici si dimenticano di dire è che gli studi umanistici servono non solo a trovare lavoro e a guadagnare di più, ma anche a essere cittadini migliori. Martha Nussbaum la grande filosofa liberale americana ha dedicato a questo tema anni di studi e un bellissimo libretto che tutti dovrebbero leggere prima di discutere dell’utilità delle scelte universitarie. Il titolo del libro è: Not for profit. Why democracy needs the humanities. Nussbaum parla di una crisi di proporzioni inedite, mai sperimentata prima che non è la crisi economica ma quella dell’istruzione. Dati alla mano mostra come in tutti i Paesi del mondo l’idea che tecnologia e scienza siano i motori del profitto ha comportato negli ultimi quindici anni un disinvestimento di impressionanti dimensioni sugli studi umanistici.
Può anche essere vero che studiare materie tecnico scientifiche al posto di filosofia sia un modo più efficiente e veloce di trovare lavoro e avere un buon reddito. E’ tutto da verificare invece se la svalutazione degli studi umanistici aiuti le moderne società e le moderne economie a garantire più benessere, più stabilità e più vantaggi per tutti, compresi anche coloro che nel breve periodo ottengono dalla loro qualificazione i maggiori benefici.
L’istruzione umanistica non ha valore solo in termini di guadagno e velocità dell’occupazione. Insegnamenti che non interrogano le grandi questioni umanistiche, come la giustizia, la tolleranza, la felicità, sono gli insegnamenti che Husserl definiva delle “scienze dei fatti”. Questi insegnamenti tendono a creare, se non opportunamente riequilibrati con altre forme di conoscenza, i cosiddetti “uomini di fatto”: esseri umani drammaticamente sprovvisti della capacità di riflettere, approfondire, discutere senza delegare alla meccanica del ragionamento causale del calcolo economico, del riduzionismo materiale, incapaci di raffigurarsi la complessità e la varietà dei problemi che riguardano la vita umana in una società complessa e multiculturale. Alla fine, cittadini docili che seguono l’autorità senza farsi troppe domande, abbagliati dal mito della crescita economica, del guadagno e del posto di lavoro. Apparentemente liberi ma in realtà proni a un pensiero unico dominante che non sono più in grado di contestare in quanto mancanti delle categorie analitiche e interpretative elementari per poterlo fare.
Di quali cittadini, di quali lavoratori, di quali persone abbiamo drammatico bisogno oggi nelle nostre società travagliate da egoismi, paure, e miserie sociali e mentali? C’è da chiedersi se è meglio avere a che fare con un laureato in filosofia che fa il cameriere o il deejay, ma è capace di pensare e di scegliere i propri politici con un ragionamento autonomo, di essere tollerante con i diversi, di dare valore alle relazioni umane, agli affetti e alle persone, oppure dieci laureati in management o scienze bancarie che pensano solo a aumentare il proprio conto in banca senza chiedersi quanto può tenere l’ordine democratico di una società dove pochi hanno tutto e tanti niente.
Husserl, ebreo, perseguitato, radiato irreversibilmente dall’elenco dei docenti universitari della Germania nazista, scriveva negli anni trenta La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Un testo che invita a basare la razionalità sulla natura intrinseca degli esseri umani, sulla loro umanità, su una creatività che genera valore sociale e non solo guadagno individuale. Se generazioni di laureati in scienze tecnico scientifiche e i fautori della tecnicizzazione degli studi universitari lo avessero letto e studiato, forse la corsa al Pil e all’occupazione non sarebbe stata così imponente. Ma le democrazie sarebbero cresciute più solide, le economie di mercato meno ottuse e violente. E i cittadini, forse, più felici.