amasciata usa

Dove porti il nuovo cammino aperto dal ripristino delle relazioni diplomatiche tra Cuba e gli Stati Uniti, è impossibile dire. Possibile, anzi, assolutamente necessario è invece analizzare il “passato” che quest’ancora inesplorato tragitto va ora gradualmente, ma (si spera) irreversibilmente, lasciandosi alle spalle. Il problema è tuttavia: da dove cominciare? Dove puntare gli occhi alla ricerca di eventi e personaggi emblematici, in grado di riassumere una storia tanto lunga, triste e, in molte sue parti, surreale?

Io ho – ormai da molti anni – un metodo: ogni qualvolta abbia la necessità rimettere a fuoco la cupa realtà di quel tempo che fu (e che, per il momento, ancora in gran parte è), rileggo un libro. Il suo titolo è Los disidentes, sgorgò dalle molto ossequienti penne di due giornalisti cubani – Rosa Miriam Elizalde (forse la più “di regime” tra i giornalisti di regime attivi a Cuba) e Luís Báez (un molto prolifico apologeta di Fidel, da poco scomparso) – e venne pubblicato on line dal governo di Cuba nell’aprile del 2003, poco dopo quella che passò alla storia come “la primavera negra cubana”. Vale a dire: dopo l’arresto e la condanna “express” a pesantissime pene detentive (dai 18 ai 27 anni di carcere al termine d’un processo a porte chiuse durato meno di mezza giornata) di 75 eminenti membri dell’opposizione interna, perlopiù giornalisti indipendenti. E proprio questo era lo scopo del libro, ancor oggi reperibile, al modico prezzo di dollari Usa 24, sulle imperialistiche pagine di Amazon, ma, curiosamente, non più nella sezione libri di Cubadebate, pagina web che proprio dalla Elizalde è da tempo diretta: mostrare ad una platea internazionale frastornata dalle mistificazioni dei media “mainstream” le “prove” dei crimini commessi dai 75 condannati.

Presentato infatti in pompa magna dall’allora molto “emergente” e promettente ministro degli Esteri – quel Felipe Pérez Roque che appena sei anni più tardi sarebbe sua volta caduto vittima d’una epurazione ai vertici del regime – il libro era in effetti la raccolta delle interviste che Báez e la Elizalde avevano realizzato con (riportiamo dalla copertina del libro) “gli eroi anonimi che vigilano nell’ombra perché a noi mai manchi la luce”. Ovvero: ai 12 agenti del governo che, fingendosi dissidenti, s’erano infiltrati nelle file dell’opposizione. Che cosa rivelavano, dunque, quei 12 non più anonimi “eroi”? Quale luce hanno diffuso in un paese dove i black-out – quelli dell’informazione di Stato e quelli ben più materiali e dolorosi della rete elettrica – sono parte della vita quotidiana?

Nessuna luce, nessuna “prova”. Anche perché, da un punto di vista processuale, c’era in effetti ben poco da provare, visto che la parte fondamentale delle loro attività “sovversive” – scrivere articoli firmandoli con il proprio nome – quei “giornalisti indipendenti” l’avevano ovviamente svolta alla luce del sole, come un aperto atto di sfida ad un regime che istituzionalmente nega ogni forma di libertà d’espressione. Sicché alla fine ci si trova di fronte a un miserando bottino. O meglio, ad un elenco di “corpi di reato” che, se non fosse il riflesso d’una tragedia politica ed umana, sarebbe davvero un autentico capolavoro d’involontaria comicità: testi della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo dell’Onu, libri di Martin Luther King, terribili armi di distruzione di massa quali un registratore Sony, un laptop, qualche pen-drive, una macchina fotocopiatrice, piccole somme occasionalmente ricevute da organizzazioni internazionali (perlopiù dell’esilio di Miami). Briciole degli stanziamenti che, decisi dal Congresso Usa, da anni in larghissima prevalenza si disperdono – senza risultati – nei meandri delle attività dell’esilio. Il tutto condito da una gran quantità di contatti – anche questi perlopiù nient’affatto segreti – con la Sina (la sezione d‘interessi degli Usa, quella che da qualche giorno è, dopo 54 anni, tornata ad essere l’ambasciata degli Stati Uniti d’America).

Dettaglio di non secondaria importanza: a maneggiare e sollecitare questi contatti sono stati, nella grande maggioranza dei casi, proprio gli infiltrati governativi. E in particolare Aleida Godínez Soler, l’agente Vilma, diventata il principale tramite tra la Sina e le organizzazioni del dissenso. Particolarmente (e tragicamente) divertente la parte nella quale questa eroina della rivoluzione racconta come una mattina, tradita dall’amore, abbia rischiato di compromettere la sua missione. Accadde quando, passeggiando lungo il Malecón, vide l’auto scura del “comandante en jefe” passare sotto scorta. E – al cuor non si comanda – non resistette alla tentazione di gridare “Viva Fidel!”.

Quello che invece il libro molto nitidamente ed inequivocabilmente rivela sono tre cose. La prima: la stupidità – qualità intrinseca d’ogni tirannia – d’un regime che, da tempo alieno ad ogni vero confronto politico, davvero aveva pensato di salvarsi l’anima con quella porcheriola di libro. La seconda: lo squallore d’una società (da molti impropriamente chiamata socialista) dove la delazione è ormai parte dell’etica della vita e dove gli sbirri diventano eroi. La terza: la tumultuosa, sguaiata e nefasta sinergia creatasi – lungo tutto il “passato” di cui tratta questo post, ma in particolare sotto il regno di George W. Bush – tra la rappresentanza statunitense a Cuba ed il governo cubano. Protagonista principale: James Cason, oggi sindaco di Coral Gable (un’elegante frazione di Miami) ieri capo della Sina. Sarà lui il personaggio principale del prossimo post…

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