Con il piano di salvataggio della Grecia da 86 miliardi, siamo al terzo salvataggio (bail out in gergo) a favore del Paese ellenico negli ultimi 5 anni. Risultati ottenuti? Un aumento del debito pubblico che potrebbe toccare quota 200% sul Pil. Questo potrebbe tranquillizzare gli spaventapasseri del socialismo. Il premier Alexis Tsipras si è mostrato molto più pragmatico di quanto si potesse pensare allontanando l’ala più radicale di Syriza (sacrificando l’inviso ex ministro delle finanze Varoufakis) e preferendo convergere su un accordo con quei creditori demonizzati in campagna elettorale.
La raison d’Etat ha avuto la meglio sul Primo ministro ellenico, il quale, per ottenere il denaro promesso, deve battere cassa sul fronte interno: un humus economico statico, vittima di un sistema pubblico ipertrofico ed inefficiente e di un alto livello di corruzione. Ma non solo.
Come scrive Deborah Boucoyannis dell’Università della Virginia su Foreign Affairs, la Grecia era seconda solo al Portogallo nella classifica dei Paesi europei con un più alto tasso di disuguaglianza di reddito, mentre il suo livello di evasione fiscale toccava il picco del 30% del suo Pil: un’enormità per un Paese appartenente al mondo occidentale. Le riforme strutturali richieste dai creditori sono socialmente asettiche, rispondono solamente ai numeri: davanti alla necessità di raggiungere un impegnativo obiettivo di bilancio, si taglia pesantemente sulla spesa pubblica, e non importa se c’è il rischio di eliminare i sussidi sulle pensioni minime.
Atene ha però esperienza in questo. Tale modus operandi, cioè il taglio lineare della spesa pubblica a danno dei servizi sociali, è una caratteristica endemica della Grecia moderna. Durante la grave crisi del debito ellenico del 1893, i governanti greci videro bene di tagliare i servizi alla popolazione invece di ridurre i privilegi di notabili e professionisti. L’ineguale distribuzione del reddito nella Grecia odierna, che con la crisi ha visto aumentare il divario tra le classi sociali segue appieno un triste trend internazionale: la crisi economica sta aumentando le disuguaglianze di reddito già elevate tra ricchi e poveri.
Dato che non ci piace mettere le etichette alle bottiglie vuote, il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz afferma che è in corso una sempre maggiore polarizzazione verso l’alto della ricchezza. Se più del 20% della ricchezza nazionale viene detenuta dall’1% della popolazione, il sistema economico non può essere che squilibrato. Conti alla mano Stiglitz afferma che negli ultimi trent’anni, coloro che ricevono i salari più bassi (e sono circa il 90% della popolazione) hanno visto aumentarli solo del 15%, mentre coloro che appartengono alle fasce più ricche (che sono solo l’1% della popolazione) hanno visto un aumento medio di circa il 150% mentre coloro che appartengono alla fascia dei super-ricchi (circa lo 0,1%) hanno beneficiato di un aumento del 300%. Alla faccia dell’equità.
La teoria del “Trickle-down“, sostenuta dai paladini del liberismo secondo cui dare più soldi ai ricchi darà maggiori vantaggi a tutti, è difficile da sostenere alla luce dei dati sopra esposti. O meglio, tale sistema offre molti vantaggi a pochi e pochi vantaggi a molti. Se la ricchezza mondiale è aumentata, questo non vale per tutti. O almeno ne stanno beneficiando in maniera sempre crescente una ristretta parte della popolazione. Il tranello è tutto qui. I posti alla tavola del benessere stanno diventando sempre di meno e sempre più cari. Mentre per chi viene escluso, vengono lasciate solamente le briciole.
Secondo la conclamata teoria secondo cui chi sta alla base della scala sociale della ricchezza paga sempre il prezzo più alto, Thomas Piketty e Stiglitz propongono di distribuire i costi di questa crisi in maniera eguale tra tutti i contribuenti. E in Grecia la vera sfida sarà eliminare i diritti pregressi delle corporazioni, riformare il sistema e andare a toccare i privilegi delle grandi oligarchie greche, le quali, secondo un articolo di Pavlos Eleftheriadis dell’Università di Oxford pubblicato su Foreign Affairs, hanno potuto mantenere, se non incrementare, la propria influenza ed il proprio reddito grazie alla distribuzione iniqua dei costi della crisi.
La resa dei conti del progressismo di Tsipras è tutta qua: riuscire a chiedere il conto anche ai grandi patrimoni non solo per senso di rivalsa delle classi meno abbienti stremate da una lunghissima crisi, ma per le prospettive future di crescita del Paese. Lo stesso Josiah Ober dell’Università di Standford, in un suo articolo uscito sempre su Foreign Affairs, afferma a chiare lettere come esista una forte correlazione tra una bassa iniquità e una robusta e sostenuta crescita economica. In sostanza, più un sistema è iniquo e lasciato a se stesso più è probabile che si impoverisca ed incappi in profonde crisi di sistema, più invece un sistema è condiviso ed equo e più, nel suo complesso, sarà in grado di beneficiare di un benessere complessivo maggiore e garantire pace sociale e stabilità.