“Quando la memoria va a raccogliere rami secchi, ritorna con il fascio di legna che preferisce” recita un proverbio africano. La nostra, di memoria, ha portato a casa i rami degli “italiani brave gente”, ma ha lasciato a terra quelli di chi cercava un posto al sole in Libia o in Etiopia, magari bombardando con i gas i villaggi di gente inerme.
La nostra memoria ha dimenticato l’infamia delle leggi razziali, ha scordato di raccogliere i rami lasciati da chi, un tempo come oggi, è partito da un paese che non gli dà da mangiare. I dati Istat del 2013 ci dicono che sono più gli italiani andati all’estero, degli stranieri arrivati in Italia. Oggi si è fatta ancora più corta, quella memoria. Facciamo presto a dimenticare chi muore per una guerra spesso scatenata da noi; o a causa di fame e miseria spesso dovute allo sfruttamento del Nord del mondo sul Sud; o per colpa di pazzi fondamentalisti che odiano l’Occidente, quell’Occidente non più capace di accogliere umanamente neppure chi fugge dai suoi stessi nemici.
Dimenticare significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine se non un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa, che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così? Piatti? Senza profondità, sottili lamine di luce su uno specchio.
Il nostro è un Paese che dimentica troppo in fretta, che rimuove la memoria e che non ha mai saputo fare i conti con il proprio passato: non li ha fatti con il colonialismo, né con il fascismo o il terrorismo. Da noi il passato in realtà non passa mai veramente, perché è sempre ben nascosto, celato nei meandri del presente. Non c’è mai stata una vera rottura con ciò che è venuto prima, solo la facciata è mutata. Da abili trasformisti si è cambiato d’abito in fretta, i funzionari sabaudi sono rimasti ai loro posti durante il ventennio e quelli fascisti hanno fatto altrettanto nell’Italia del dopoguerra. Siamo un paese dove politici ex comunisti portano avanti politiche liberiste e reggono senza particolare imbarazzo ministeri in governi assolutamente concordi con ogni principio di mercato. Gattopardescamente tutto continua a scorrere come acque carsiche invisibili che alimentano un fiume lento e pigro.
Non abbiamo neppure fatto i conti con l’emigrazione. La nostra emigrazione: dimenticata, relegata in pochi e scarni capitoli dei libri di storia o in qualche museo. Affidata a qualche film dal gusto amaro, ma mai fatta veramente nostra, mai interiorizzata. Siamo sempre pronti a celebrare gli eroi delle guerre, morti per la patria, e mai chi da questa stessa patria è stato costretto a partire. Essere costretti a emigrare è forse peggio del perdere una guerra. È una sconfitta senza onore a cui non segue una ricostruzione e per di più è una sconfitta dove il nemico siamo noi stessi. Il fallimento di chi governa, pagato da chi è governato, a cui neppure va l’ipocrita gloria di un monumento.
Eppure lo sapevamo anche noi
l’odore delle stive
l’amaro del partire.
Lo sapevamo anche noi.
E una lingua da disimparare
e un’altra da imparare in fretta
[…]
e il tiepido del pane
e l’onta del rifiuto.
Lo sapevamo anche noi
questo guardare muto.
Lo sapevamo anche noi
il colore dell’offesa
e un abitare magro e magro
che non diventa casa.
Così canta Gianmaria Testa in Ritals, soprannome spregiativo che i francesi davano agli immigrati italiani, perché non riuscivano a pronunciare correttamente la r francese. Lo sapevamo, sì, ma lo abbiamo dimenticato o, peggio, facciamo finta di non ricordarcelo. Si sente dire “rimandiamoli indietro!”, “affondiamo i barconi!”, “ma come può una madre affrontare un viaggio così con dei bambini!”. Incapaci di capire la profondità delle tragedie che si sono lasciati alle spalle.
Rimosso ogni ricordo, ci diventa persino difficile capire il dramma di chi prova a raggiungere le nostre coste, risalendo quel mare contromano che noi, invece, con poche centinaia di euro e un visto regolare, possiamo attraversare a nostro piacimento per andare in quei Paesi dai quali proviene chi è costretto a pagare migliaia di euro e a rischiare la vita su barconi sgangherati in balia di scafisti criminali. Abbiamo perso la misura del mondo.
Eppure lo sapevamo anche noi, ma lo abbiamo scordato.
Nel 1894 a bordo della nave italiana Matteo Bruzzo diretta a Montevideo, che trasportava perlopiù emigranti italiani in cerca di fortuna oltreoceano, scoppiò una epidemia di colera. Centinaia di cadaveri vennero gettati in mare. Le autorità uruguayane impedirono alla nave di attraccare, minacciando di prenderla a cannonate. Molti altri morirono nel viaggio di ritorno.
Il 4 agosto del 1906 il Sirio, salpato da pochi giorni dal porto di Genova e diretto verso Brasile, Uruguay e Argentina, si schiantò ad alta velocità contro degli scogli del basso fondale davanti a Capo Palos, in Spagna. Anche qui i passeggeri erano emigranti italiani. La nave si impennò di prua e iniziò ad affondare. Un giornale dell’epoca riporta: “Furono gettate a mare le lance, ma si riempirono subito di tante persone che, per soverchio peso, le fecero affondare e così tutti i disgraziati che vi erano precipitati invece che la salvezza trovarono la morte. La costa era lontana 3 chilometri dal piroscafo e gli scogli che superavano l’acqua circa un chilometro e mezzo. Venticinque o trenta uomini si salvarono guadagnando a nuoto gli scogli dove rimasero per tutto quel giorno e la notte successiva, senza nulla da mangiare”. Ufficialmente le vittime furono circa trecento, ma il numero non tiene conto di un centinaio o forse più di clandestini spagnoli imbarcatisi lungo il percorso. Al museo di Capo Palos si possono vedere ancora oggi i volantini che pubblicizzavano la possibilità di imbarcarsi clandestinamente in scali extra.
Ventuno anni dopo, sulla stessa rotta fu, la volta del più grande transatlantico costruito per una compagnia italiana, il Mafalda. Il 25 ottobre al largo delle coste brasiliane la nave iniziò a inclinarsi a causa di una falla. Fu l’inizio della fine, non si fece neppure in tempo a calare le scialuppe di salvataggio. Le autorità italiane dell’epoca tentarono di minimizzare la tragedia e annunciarono la morte di trecento persone, tutti emigranti. Per le autorità brasiliane e argentine le vittime furono oltre 650, molte delle quali divorate dagli squali.
Lo sapevamo anche noi e la storia si ripete con altri attori. Un giornale dell’epoca riporta: “Le compagnie armatoriali creano una fitta rete di agenti in tutta l’Italia per accaparrarsi gli emigranti. Gli abusi, le speculazioni e le truffe sono all’ordine del giorno. Gli agenti delle compagnie sono molto attivi: quelli che vogliono abbandonare l’Italia sono moltissimi e le tangenti che gli armatori pagano per ogni biglietto venduto sono altissime. Sono gli stessi agenti che in molti casi anticipano ai più disgraziati il denaro per il biglietto con un tasso d’interesse da brivido”.
Anche da noi c’era chi già allora guadagnava facendo lo scafista.