Il castello sbilenco è stabile e solido. Dà sicurezza. Lo tocchi e senti i mattoni rossi e polverosi sotto i polpastrelli che rimangono bianchi e ruvidi. Il sole cola a picco e trovi ombra dietro quella punta che a piramide scende giù, come un triangolo piantato a terra, lancia e giavellotto conficcato. E’ il simbolo centrale di Lari (come i protettori del focolare) attorno al quale s’accende da quasi vent’anni il festival “Collinarea”. Grande, pesante, corposo, come un’astronave atterrata nella notte, stabile, piena, scesa come trivella. Sta. Attorno si sono formati due giri di case, quasi un abbraccio, una doppia cintura a stringersi sulla Storia. Posticcia di aggiunte e rivisitazioni, migliorie e cerotti del Tempo. Il teatro, il castello, il circolo, gli spazi dove si aprono le piccole grandi scelte del direttore Loris Seghizzi, regista di Scenica Frammenti, che da qualche anno si avvale della collaborazione con Pontedera Teatro che ha fatto fare alla rassegna un bel salto.
In cima al castello all’ora del tramonto, con la luce a tagliare gli stemmi appesi, scalzo Luigi D’Elia, anche artigiano e falegname e scenografo, ci porta dentro, facendocela immaginare lì con piccoli gesti antichi, “La grande foresta”, testo di Francesco Niccolini (150 repliche, portato anche a Madrid e a Santiago del Cile, Premio Eolo), che allo stesso tempo scatena il sorriso dei bambini e le lacrime degli adulti. Riduttivo chiamarlo teatro per ragazzi. Denso di metafore sul rispetto della vita, delle regole, del prossimo. Un nonno, come tutti lo avremmo voluto, che insegna, con modi bruschi e dolcezza silente, al piccolo nipote, orfano dei genitori come da migliore tradizione da cartone animato giapponese, ad andare a caccia ma allo stesso tempo ad amare la natura e i suoi abitanti e le grandi verità che regolano il ciclo della vita. Un bambino, l’ansia e l’attesa di camminare acquattato nel bosco al fianco del nonno-eroe, per scovare i lupi, questo simbolo di purezza e fierezza atavica. Un racconto anche feroce, come lo è del resto la vita non edulcorata e dolcificata dall’uomo, un racconto che è un lungo haiku, la poesia nipponica a lampi e flash che riporta in pochi versi tutta la densità che sa esprimere la Natura con tutto il suo stupore. Il nonno, molto simile al lupo, è l’emblema di un certo modo, sensibile e tenace, di stare al mondo, totalmente all’opposto e contrario, ad altre tipologie di uomini che scorrazzano impunite, come ad esempio quelli (ipotesi) che hanno ucciso, ombra di pedofilia, la bambina, l’innocenza flebile che nel bosco, non da fiaba, che nella Foresta, non sopravvive, non resiste all’urto dirompente dell’esistenza.
Ha forza da ve(n)dere la “Pentesilea” dirompente del Teatro dei Venti con i suoi due “caproni” di potenza bruta, lei in nero diabolica, diavolo infernale, lui in bianco papale, che, al suono di tamburi di guerra, con un sound techno che pompa, si scontrano nell’eterna battaglia tra il Bene e il Male. Sui trampoli piroettano e danzano, leggeri come fenicotteri carezzano l’asfalto e l’aria. Hanno fruste e al posto degli scudi piatti da batteria che dilatano echi. Volteggiano i fili e i lacci, le corde e i cenci, i trucchi e le urla, gli stracci e le lance in quest’epica guerriglia dove i canti di morte si intrecciano ai madrigali e le armature di questi esseri giganteschi, a metà strada tra Ciclopi e Pupi siciliani, Centauri si scagliano, fino all’inevitabile conclusione, per mordere quel trono che diventa altare e letto d’agonia.
Non sono tutte rose. Arrivano anche le spine. “Tanghi sperduti” riassume in sé tutto quello che non si dovrebbe fare, da un lato, dal palco, che non si dovrebbe essere costretti a sentire (subire) dall’altro, in platea. Teatro Cinico si chiama la compagnia, avremmo preferito che lo fossero davvero. Una storia sconclusionata, recitata (?) con tono bassissimo, ciancicato e biascicato, dialogo interiore inframezzato da chitarra e bandoneon con sonorità argentine appena annunciate e subito tagliate. Sperduti sono stati gli spettatori, non tanto i tanghi. Coitus interruptus.
E “Socialmente”, addirittura vincitore del “Premio Anteprima”, è un’analisi fuori tempo massimo sul mondo di Facebook e dintorni. Ma a questo ragionamento i due sulla scena (Claudia Marsicano di rara potenza e autoironia, voce cristallina, lavorerà nel nuovo “Made in China” di Simone Perinelli) uniscono, con un errore madornale e grossolano, la televisione, con brani ripresi da trasmissioni spazzatura, sui delitti degli ultimi anni di casa nostra, ai social network, con interviste audio dove giovani magnificano la bellezza e la centralità nella loro esistenza di fb. La sua Effe campeggia su fondo blu sulla porta del frigo (ma potrebbe essere anche un bagno) perché le ossessioni compulsive più gravi derivano dal sesso come dal cibo, bulimici o anoressici di emozioni e sentimenti. Ma la narrazione procede a step, a piccole aggiunte ma estese all’inverosimile, espanse all’infinito, facendo perdere di forza al concetto. Emerge la disperazione e l’apatia delle giovani generazioni ma la confusione che pone sulla scena un grande schermo televisivo crea da subito un cortocircuito che ci pone in una situazione scomoda, immersi in una tesi che accomuna tv e fb, media completamente differenti, il primo sorpassato perché non interattivo, il secondo demonizzato.
A Lari l’aria è buona, i frutti si vedranno.