Il dibattito scatenato da Stefano Feltri è più interessante della sterile polemica di chi risponde insultando o prendendola con presunte, distorte, radici borghesi. Il punto è stato posto molto precisamente – conviene o meno studiare materie umanistiche? No, è la risposta – ed è bene coglierlo dal verso giusto. Ognuno ha il proprio approccio, il mio vuole essere altrettanto radicale, e contrario, rispetto a quello proposto e quindi, proprio per la radicalità che si propone, soggetto ad alcune approssimazioni o imperfezioni. In questo testo, però, c’è anche una curiosità finale che servirà non tanto a sostenere la tesi qui esposta quanto a riderne un po’.
Su una cosa Feltri ha perfettamente ragione: l’istruzione è l’unico ascensore sociale che funziona, in Italia e non solo. Funziona, cioè, quando è messa in condizione di funzionare, dispone di risorse, esprime condizioni di sostanziale parità delle opportunità. In un paese con i tassi di evasione fiscale come l’Italia è evidente che l’affermazione rimane sul piano delle utopie ma questa non è una ragione per non crederci o per non battersi in quella direzione.
Il punto in cui divergo nettamente dal ragionamento proposto, rischiando di finire nel calderone delle “anime belle” è l’altra affermazione, centrale nella tesi esposta dalla stessa Ilaria Maselli, una delle autrici dello studio del Ceps citato: “Gli studenti italiani studiano cose giudicate inutili dal mercato del lavoro”.
Quello che va contestato, in questo dibattito, è proprio la pretesa di tracciare una linea retta, consecutiva e inamovibile tra gli studi e il mercato del lavoro. Se questa fosse la condizione indifferibile, allora dovremmo studiare tutti Medicina scegliendo la specializzazione in Odontoiatria (secondo lo studio AlmaLaurea già citato nei precedenti articoli, è la specializzazione che a cinque anni dalla laurea offre il reddito più alto, più di Ingegneria che la segue subito dopo). Dovremmo affollare, cioè, le facoltà iper-scientifiche con il paradossale risultato di lasciare libere quelle umanistiche che, improvvisamente, acquisterebbero valore.
Ma al di là dei paradossi dialettici, se una società affida i propri studi solo all’andamento del mercato del lavoro, e quindi alle sue volubilità, ai suoi “capricci”, alla sua presunta “mano invisibile”, che in realtà non è mai esistita, quella società finisce per perdersi, per restare con il naso incollato ai grafici di borsa invece che alle utopie civiche. Esattamente quello che sta avvenendo oggi in Italia e in Europa: una società con poche eccellenze, poca riflessione su se stessa, poca valorizzazione del fenomeno culturale, quasi nulla comprensione del passato e poca capacità di progettare il futuro. Una società, soprattutto nella sua classe dirigente, fatta di “lauree brevi” tecnico-scientifiche, di specializzazioni fasulle, di laureati figli di papà che trovano il posto già caldo in azienda oppure di menti brillante che se ne vanno dal Paese.
Per paradosso, invece, bisognerebbe studiare obbligatoriamente la Storia. Bisognerebbe conoscere sul serio l’opera dell’ingegno umano. Servirebbe un sistema scolastico, fino all’università, che mettesse questi fattori al centro dei programmi per poi lasciare spazio alle specializzazioni che ognuno desidera.
Scegliendo gli studi giusti, si può replicare, si trova lavoro prima e meglio. Può darsi ma questo vale solo per porzioni minime. Oggi il lavoro non c’è a prescindere e chi scrive ha fatto il giornalista anche senza essersi laureato (anche se si è imbevuto di storia). La disoccupazione riguarda tutti, letterati e fisici.
Per citare Luciano Canfora, “la storia fa paura ai conservatori perché dà strumenti per criticare il presente” e, andando ancora più oltre, “la filosofia fa diventare adulti”. Ovviamente ognuno è libero di dedicarsi agli studi che vuole, ci mancherebbe, ma dovrebbe chiedersi quanti studi umanistici ha fatto e quanti farne ancora e sentirne la mancanza. La formazione scolastica, anche quella universitaria, dovrebbe servire a preparare cittadini e cittadine, a sviluppare la critica del presente, a creare uomini e donne che possano emanciparsi, ad esempio, dalle idiozie della classe politica, a sviluppare la propria visione del mondo.
La prova del nove di questa affermazione – ma prendiamo alla leggera questa curiosità scherzosa – sta nel curriculum universitario del “renzismo”. Il premier e il suo “cerchio magico” ha fatto solo studi giuridici. Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Debora Serracchiani, Ernesto Carbone, Dario Nardella, sono tutti laureati in Giurisprudenza. Nessuno in Lettere o in Storia. Solo Marianna Madia e Federica Mogherini hanno studiato Scienze politiche. Ma le due sono approdate al renzismo solo dopo.