"Ero passata proprio oggi davanti alla chiesa e avevo visto quei cartelli, con un signore definito Re di Roma: sembrava il Papa, con quel vestito bianco. Non avevo capito che si trattasse di Casamonica, altrimenti mi sarei irritata", dice la moglie di Piergiorgio, cui la stessa chiesa fu negata dopo l'eutanasia. Un racconto che smentisce la versione del parroco: "I manifesti li ho intravisti alla fine e poco dopo, quando il feretro ha lasciato il piazzale"
Il parroco sostiene di non essersi accorto di nulla, la Curia di Roma se ne lava le mani e alla prefettura nessuno aveva comunicato niente. Eppure arriva una testimone d’eccezione a smentire le giustificazioni del sacerdote che ha celebrato i funerali in stile Padrino di Vittorio Casamonica. Si tratta di Mina Welby, la moglie di Piergiorgio, che alla morte del marito si vide sbarrare la porta della stessa chiesa dove oggi hanno accolto in pompa magna i sei cavalli neri con il feretro del boss alleato della Banda della Magliana.
Di quello spettacolo a metà tra le esequie di un “mammasantissima” siciliano degli anni ’50 e i film sui gangster italo americani, nessuno intende assumersi alcuna responsabilità. Quei cartelloni con Vittorio Casamonica vestito di bianco e il titolo “Re di Roma” affissi ai muri della chiesa ? “I manifesti li ho intravisti alla fine e poco dopo, quando il feretro ha lasciato il piazzale, li hanno staccati”, dice don Giancarlo Manieri, da tre anni parroco di San Giovanni Bosco, quartiere Tuscolano, periferia sud est della Capitale, feudo dei Casamonica, che da queste parti gestiscono spaccio e usura, ed erano già noti in parrocchia. “Sembravano cattolici di antica data- continua il sacerdote- sapevo che si trattava di un componente della famiglia Casamonica ma non che fosse il capo del clan. Me ne avevano parlato inoltre come di un cattolico praticante”. Emerge ormai chiaramente che c’era un rapporto consolidato tra il parroco e la famiglia Casamonica, tanto che il primo aveva preso accordi perché il funerale si svolgesse con discrezione.
Così non è stato e adesso don Manieri ci tiene a specificare: “Ciò che avviene fuori dalla chiesa non è di mia competenza. Io – dice a repubblica.it – non sono un vigile urbano e ci tengo a precisarlo”. E dire che, nel novembre del 2014, lo stesso don Minieri era tra i partecipanti ad una tavola rotonda dedicata ad un tema molto delicato: municipi senza mafie. Ad un anno da quel dibattito, però, Minieri non si è accorto del potenziale messaggio lanciato dal funerale che ha officiato. Dalla Curia reggono il gioco, anzi di più: “Il parroco – precisano dal vicariato – non si è accorto di nulla. Nemmeno dei manifesti del boss vestito da Papa poggiati sull’edificio della sua chiesa. Forse sarebbe dovuto toccare ad altre istituzioni intervenire in quel momento”.
La versione però non regge: quei manifesti con il boss Casamonica ritratto in posa quasi papale, crocifisso al collo e abito bianco splendente, erano stati affissi già la mattina. A sostenerlo è la stessa Welby.”Ero passata proprio oggi davanti alla chiesa -dice la moglie dell’attivista radicale, morto per eutanasia – e avevo visto quei cartelli, con un signore definito Re di Roma: sembrava il Papa, con quel vestito bianco. Non avevo capito che si trattasse di Casamonica, altrimenti mi sarei irritata”. Quei manifesti che inneggiavano al defunto, che lo invitavano a “conquistare anche il Paradiso”, dopo aver “conquistato Roma”, dunque, erano già stati issati prima dell’inizio della funzione. Come ha fatto il sacerdote a non accorgersene?
“E’ stato uno schiaffo al sindaco, e anche alla Chiesa: chissà che ne pensa il Papa. Questi funerali non dovevano essere fatti, ma ora lasciamo passare la misericordia”, continua Welby. Che non a caso cita Papa Bergoglio, autore appena l’anno scorso di una scomunica totale verso tutti i mafiosi. E invece, dodici mesi dopo, all’anziano maggiorente di uno dei clan che si divide il bottino criminale della Capitale sono stati dedicati funerali degni di un capo di Stato.
“Di questa vicenda la prefettura non aveva alcuna contezza. Ne chiederemo conto, per cercare di capire, al di là dei clamori, eventuali responsabilità”, promette il prefetto di Roma Franco Gabrielli, rivelando che a Roma è possibile per un potente clan criminale darsi appuntamento in un’occasione pubblica senza che le autorità ne sappiano nulla. E dire che le indagini antimafia degli ultimi anni hanno dimostrato come occasioni simili (funerali, matrimoni) sono i momenti in cui i clan fissano summit pensando di potere agire indisturbati. ”È un episodio – continua Gabrielli – che non va sottovalutato, ma neanche amplificato. Resta il fatto che saranno compiuti degli accertamenti. In base all’esito sarà presa una decisione”. Nel frattempo il ministro dell’Interno Angelino Alfano chiede ha chiesto relazione dettagliata allo stesso prefetto Gabrielli. In attesa di capire chi ha reso possibile un maxi spot ad una dei quattro clan criminali di Roma, proprio alla vigilia del primo Maxi processo alla Mafia nella capitale.