È difficile stabilire quando si abbia a che fare con un’associazione mafiosa e quando no. Soprattutto al Nord.
Lo scorso aprile Ernesto Palermo, un ex consigliere comunale di Lecco, in quota Pd (poi passato al gruppo misto), è stato condannato per turbativa d’asta ed estorsione ma non per associazione mafiosa, come invece era stato richiesto dall’accusa. Pur essendosi messo in affari, per la realizzazione di strutture ricettive in prossimità di un lido di fronte al lago di Lecco a Valmadrera, con Mario Trovato fratello di Franco – noto boss della ‘ndrangheta lombarda detenuto – per lui il Giudice di Milano, Roberto Arnaldi, ha deciso per l’associazione semplice.
Nelle motivazioni della sentenza che ha derubricato il capo di imputazione da un 416 bis (l’associazione mafiosa) a un 416 semplice Arnaldi – già giudice del rito abbreviato del processo “Infinito”, concluso con numerose condanne – spiega che “non pare sufficiente a caratterizzare l’associazione in parola sub articolo 416 bis la sola considerazione dell’appartenenza di Mario Trovato al noto contesto famigliare difettando, peraltro, di significativi momenti sintomatici che l’esperienza giudiziaria ha insegnato a riconoscere come tipici della criminalità organizzata”. Mancano, secondo il Giudice milanese, elementi di prova quali “l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di ‘uomo d’onore’ “; ma pure “la distribuzione e ricezione di ‘doti’ (i gradi della ‘ndrangheta ndr)” senza contare, si spiega infine: “la partecipazione ai summit e i collegamenti con le altre locali che formano la ‘Lombardia’ (l’entità di ‘ndrangheta attiva attorno a Milano e provincie limitrofe Ndr)”.
Insomma nell’indagine ‘Metastasi’ è mancata tutta quella “ritualità mafiosa” che per Arnaldi avrebbe costituito elemento di prova fondamentale per giustificare un 416 bis. Palermo è stato così condannato, in rito abbreviato, a 6 anni e 8 mesi: i pm ne avevano chiesti 16 ed ora ricorreranno in appello.
A una pena simile (15 anni e 3 mesi in primo grado) è stato invece condannato a inizio estate Pino Pensabene, per i magistrati esponente di spicco della criminalità organizzata di Desio (Monza e Brianza) e animatore della cosiddetta “banca della ‘ndrangheta”. Le motivazioni di quella sentenza ancora devono essere rese note, ma all’incirca un anno fa, quando Pensabene fu tratto in arresto, un altro giudice, Simone Luerti, sempre in forze al Tribunale di Milano, scriveva a convalida del fermo per Penabene e altre 46 persone: “Corre l’obbligo di sottolineare che l’associazione mafiosa di cui si tratta non presenta i tratti ‘tipici’ dell’associazione o del ‘locale’ di ‘ndrangheta. In altre parole, niente rituali, né affiliazioni; qui non compaiono ‘doti’, né gradi, né picciotti, santisti o sgarristi (doti ndr) di sorta; poche (ma pur presenti) armi e nessuna (almeno nota) ‘mangiata’ (summit ndr). Qui si parla di professionisti e imprenditori. Si potrebbe dire che siamo di fronte ad un fenomeno di vera e propria ‘nuova mafia’”.
Differenze, in seno al medesimo Tribunale, che dicono quanto, anche la magistratura, sia tutt’ora impegnata a definire con esattezza che cosa sia la mafia al nord.