Sarà una coincidenza, ma ogni anno prima dell’apertura delle scuole e della ripresa delle lezioni universitarie in Italia si scatena la battaglia contro la cultura umanistica. Che si chiamino statistiche sugli sbocchi professionali, o perorazioni alla Boldrin per abolire il Liceo Classico, la zuppa non cambia. Sicché qualche dubbio ci viene che fra le cose che “dobbiamo fare” per forza, perché l’Europa lo vuole, oltre all’Euro, a chiudere tutte le piccole banche e le piccole imprese, a privatizzare tutto quello che vale e spezzare le reni alla Grecia, ci sarà prima o poi anche la chiusura della millenaria bottega degli studi umanistici.
E a noi – che pure non abbiamo certezze e pensiamo che non ci siano soluzioni semplici a problemi così complicati come lo sviluppo economico – siamo profondamente convinti che ci sia qualcosa di molto concreto e utile nello studio della lingua latina, con la sua rigorosa struttura più matematica di qualsiasi teorema; nella conoscenza del greco antico, con tutto quello che può svelare alla nostra quotidianità inconsapevole; nelle quattro briciole preziose che si possono apprendere sulla differenza tra un sillogismo apodittico e uno ipotetico o sull’importanza di uso non fraudolento della razionalità; per non dire della conoscenza storica e geografica, al senso dell’arte e alla sensibilità verso la musica: insomma a noi che crediamo che tutte queste ‘esecrabili’ conoscenze – che in genere si apprendono in un corso di studi umanistici – forse non riusciranno ad impedire definitivamente che i vari Berlusconi di turno riescano nuovamente a persuadere milioni di persone a suon di baggianate, ma sicuramente come nient’altro potranno contribuire a ridurre il numero delle disgrazie vigenti.
Gli studi umanistici, forse per alcuni non ‘servono’ a nulla o a poco, ma per altri aiutano a vivere meglio e soprattutto spingono a sviluppare uno spirito critico personale che non ha nulla a che fare con l’individualismo conformista dei cosiddetti tecnici. E ci farebbe piacere se con forme più o meno esplicite non volessero impedirci di continuare a dedicarci a ciò che riteniamo bello e utile. Non avrei voluto quindi mai entrare in questo discorso, così trito e in fondo così palesemente teleguidato, come lo sono molti provvedimenti recenti dei nostri governi. Però c’è una cosa che proprio non riesco a credere, che si sia voluto sostenere, siccome gli studi classici sono un lusso (affermazione indimostrabile), che coloro che scelgono la strada degli studi umanistici rifiutano in pratica il principio meritocratico, che evidentemente si esprimerebbe solo attraverso le conoscenze tecnico-scientifico-matematiche.
È certamente vero, come diceva il grande logico inglese John Henry Newman, che gran parte delle nostre conoscenze che supponiamo razionali, in realtà si basano sulla fede e non sull’evidenza empirica e razionale. Tutti sono in condizione di sapere da oltre cento anni – da quando cioè l’economista veronese Angelo Messedaglia lo disse chiaramente – che l’uso deduttivo della matematica, privo di verifiche induttive, porta a conclusioni false, come è nel caso della maggior parte dei modelli economici matematici contemporanei, dove, per la quantità di dati fissi che si devono assumere, in realtà si finisce per non descrivere nulla di reale. Così, forse a causa dell’irrazionalità che governa il mondo, ci tocca sentire nuovamente l’indimostrabile teoria del legame tra lo studio di una disciplina e i livelli di occupazione, come se il semplice accostamento di dati potesse documentare appunto l’influenza dell’uno sugli altri.
Di fronte a tanta superficialità non vale ricordare che nel corso dei secoli la cultura umanistica è stata il fattore determinante dello sviluppo delle conoscenze scientifiche e che quindi se guardiamo alla realtà il modo più efficace per distruggere lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, delle invenzioni e delle innovazioni è quello di ridurre la conoscenza delle discipline cosiddette umane e sociali, quello di limitare la libertà di studio e di ricerca. Né vale nemmeno ricordare che nessuno come quelli che hanno avuto a cuore una visione umanistica ed etica delle scienze ha contribuito alla crescita degli studi matematici. Per limitarci solo al campo dell’economia, non diciamo forse che Adam Smith è stato il fondatore della scienza economica moderna? Oppure non è forse vero che la moderna econometria è nata all’ombra di un economista come Joseph Schumpeter, il più umanista tra gli economisti del XX secolo? A che serve poi anche oggi constatare che nella formazione dei grandi manager lo studio delle discipline apparentemente più pertinenti (business) in realtà è marginale, almeno guardando le statistiche sui Ceo americani?
In realtà in Italia il processo di collocamento occupazionale all’interno del mercato in particolar modo dei giovani, con la loro cultura e la loro formazione, oltre che essere influenzato da fattori individuali è legato più che altro alla struttura del mercato, che nel caso di quello italiano è ben lungi dall’avere le caratteristiche del perfetto allocatore, per tutta una serie di deficienze strutturali, che nulla hanno a che vedere con la cultura umanistica e che ovviamente dovrebbero essere note anche agli oppositori degli studi umanistici. Non è certamente forzando i giovani, magari a suon di statistiche modello pollo procapite, a stare lontano dagli studi umanistici, che risolveremo il problema della disoccupazione o men che meno della struttura del mercato del lavoro. La scuola, l’università, le imprese italiane, il mercato vanno certamente riformate e in molti casi rifondate, ma aumentando e migliorando gli studi, non certo abolendoli o limitandoli.