calexico1Corre l’anno 1996 quando Joey Burns e John Convertino, che insieme formano l’ex sezione ritmica di una band già affermata, i Giant Sand, iniziano a lavorare a un concept album sul deserto dell’Arizona e del New Mexico, con il quale il duo, sotto il marchio Calexico (nome preso in prestito da una cittadina al confine tra la California e il Messico), assieme ad altri musicisti incontrati sul loro cammino, ridefinisce il concetto del genere post-rock, combinandolo a un sound “latino”. Nasce così il disco The Black Light, e si inaugura un progetto che definire Tex-Mex è riduttivo: “Noi – affermano Burns e Convertino – lo definiamo ‘Desert Noir’ espressione coniata qualche tempo fa da Fred Mills, un nostro amico giornalista. In genere, quando ci fanno questa domanda, rispondiamo che facciamo musica da cantautori del sud-ovest, con in più diversi altri elementi”. Del resto, amano molto sperimentare e le collaborazioni con altri artisti svolgono un ruolo fondamentale nel trovare nuove influenze, stili e strumenti. Alla ricerca di una nuova identità, nei primi dischi i Calexico delineano un’epica sulla frontiera, eterna contesa tra desiderio e nostalgia, fra presente e ricordo. Non di rado la loro musica è stata accostata a quella del Maestro, Ennio Morricone: “Il paragone ci fa sentire onorati, anche se con ogni nuovo album troviamo sempre un po’ di più la nostra dimensione”. Fra qualche giorno (il 23 agosto), i Calexico si esibiranno in Italia, ospiti d’onore al Folkfest di Ariano Irpino (Av), paesino posto al centro dello Stivale, stretto fra Campania, Puglia e Basilicata. Il Folkfest quest’anno festeggia il ventennale e la nuova edizione sarà ispirata al tema, appunto, della “frontiera” intesa come scambio di culture. La band di Tucson nell’occasione presenterà il suo ultimo album The Edge of the Sun, di cui consiglio vivamente l’ascolto.

La vostra musica sembra essere una perfetta colonna sonora per qualsiasi pellicola d’avventura: ne avete già scritte un paio, ma tra i film già usciti, a quale avreste voluto curare la colonna sonora?
John Convertino: Ricordo che ero da solo al cinema a guardare Birdman e pensavo a quanto invidiassi il batterista della colonna sonora. Le parti percussive si adattano perfettamente al tono del film, creando tensione e risoluzione… È così che vorrei suonare ogni sera. Un altro film che amo molto è Grand Budapest Hotel: le colonne sonore dei film di Wes Anderson sono la perfezione assoluta.
Joey Burns: Potendo scegliere, avrei optato per Dead Man Walking di Jim Jarmusch, ma Neil Young è arrivato molto prima di noi…

C’è un regista contemporaneo che ammirate in particolare?
Joey: Personalmente ammiro molto Jan-Ole Gerster regista di Oh Boy, un caffè a Berlino, Wes Anderson e il celebre Wim Wenders.
John: Anche a me piacciono i registi citati da Joey, a cui aggiungo Woody Allen, Francis Ford Coppola e il maestro Stanley Kubrick.

E quali sono i vostri scrittori preferiti?
Joey: Charles Bowden a cui abbiamo dedicato il nuovo album, Luis Alberto Urrea, Norman Dubie e Bill Carter.
John: Anche a me piacciono molto, ma aggiungerei, tanto per citarne alcuni, John Fante, Charles Bukowski, Flannery O’Connery, J.D. Salinger e Haruki Mirakami.

Le vostre canzoni riflettono le atmosfere della musica messicana, ma con una struttura che è variamente folk-rock statunitense e sorprendentemente a volte jazz. Quanto è importante per voi fare ricerca musicale?
Joey:
Amo molto sperimentare e creare musica, e le collaborazioni svolgono un ruolo fondamentale nel trovare nuove influenze, stili, e strumenti. Quelli di cui parli sono alcuni tratti stilistici evidenti della nostra musica, ma ce ne sono altri.
John: In passato, ascoltando classici di Latin Jazz o The Far East Suite di Duke Ellington e Tijuana Moods di Charles Mingus, iniziai a sperimentare sui ritmi latini con la batteria e, dopo tanti anni passati a suonare rock, la cosa mi piacque moltissimo. La mia formazione iniziale era basata sul jazz, quindi tutto tornava. E una volta visitata L’Avana e ascoltate le band afrocubane sotto il sole cocente, lo stile percussivo di Elvin Jones ha iniziato ad avere molto più senso per me.

Mi parlate dell’ultimo album che avete pubblicato The Edge Of The Sun?
Joey: L’album nasce durante un viaggio a Coyocan, a Città del Messico, insieme a John e al nostro amico musicista Sergio Mendoza. Volevamo stare in un luogo urbano, abbastanza vicino e che offrisse ispirazione per scrivere. Oggi sembra che molti artisti preferiscano grandi città come New York o Los Angeles, ma secondo me Città del Messico ha molto da offrire. Mi piace l’idea di poter ridurre la distanza tra Messico e Stati Uniti e apprendere cosa succede in questo paese senza affidarmi ai media. Abbiamo trovato gente molto positiva, artisti fantastici come Pedro Reyes, che abbiamo ammirato nella sua installazione Disarm. Per non parlare di musica e cibo, davvero incredibili.
John: Sì, è vero. C’è molta carne al fuoco in questo album. E ce n’è ancora di più nelle tante sessioni registrate mentre realizzavamo l’album. Mi sarebbe piaciuto poter fare un album più lungo e di includere alcuni dei brani strumentali, o una canzone scritta da Jacob Valenzuela. Ma almeno ci sono Lp e Cd con bonus contenenti molti di questi materiali, per gli ascoltatori che amano andare più a fondo. I brani che compongono The Edge of the Sun si muovono su un ampio raggio di stili e sonorità. Durante il tour ci siamo resi conto di quanto queste canzoni funzionassero bene dal vivo, e il pubblico ha reagito molto positivamente, tanto di fronte al nostro materiale più calmo, quanto ai brani più ritmati e rock. Finora è stato un ottimo tour e non vediamo l’ora di portare le nostre canzoni in Italia.

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