Lavoro & Precari

Voucher lavoro, boom per la “nuova frontiera del precariato”. Aiuta il Jobs act

Se nel resto d'Europa il metodo è utilizzato per i soli lavori domestici, in Italia i buoni vanno alla grande in tutti i settori produttivi. L'economista Dell'Aringa: "Se questo aumento fosse confermato e il voucher sostituisse non il lavoro nero ma contratti più stabili, bisognerà pensare a ulteriori interventi correttivi"

Impennata per i voucher, i buoni usati per pagare prestazioni lavorative occasionali. Nei primi sei mesi del 2015, informa l’Inps, sono stati attivati oltre 49 milioni di tagliandi: un aumento del 74,7% rispetto all’anno precedente. E’ il successo di un modello importato dall’Europa, anche se con sostanziali differenze: negli altri Paesi, l’ambito di applicazione è rimasto circoscritto ai lavori domestici, da noi si è ampliato a tutti i settori produttivi. E il Jobs act ne ha rafforzato l’espansione, fino al punto di fare scattare l’allarme: già tre mesi fa, il presidente dell’Inps Tito Boeri parlava del rischio di aprire una “nuova frontiera del precariato”, ora l’economista Carlo Dell’Aringa ammette che, se la tendenza sarà confermata, bisognerà procedere a interventi correttivi.

I numeri, infatti, dimostrano che l’ultimo balzo in avanti dei voucher non è un caso isolato. Tra 2012 e 2013, l’aumento era stato del 71,3%, l’anno successivo del 69,6 per cento. Da quando è stato inaugurato questo strumento, sono stati venduti quasi 200 milioni di buoni lavoro, per un valore totale di 2 miliardi di euro. E uno studio del Cna ha calcolato che nel giro di sei anni, dal 2008 al 2014, il numero dei voucher è aumentato di 129 volte. Una cifra che equivale, in termini di ore lavorate, a circa 33mila posti di lavoro a tempo pieno. Ma di cosa si tratta, esattamente? Il voucher, o più precisamente buono lavoro, è uno strumento ideato per pagare prestazioni lavorative occasionali, come servizi domestici o attività agricole, con l’intento di favorire l’emersione dal lavoro nero. Ogni tagliando vale 10 euro: 7,50 euro finiscono netti in tasca al lavoratore, mentre il 13% del buono corrisponde ai contributi Inps, il 7% va all’Inail e il restante 5% serve per pagare l’istituto di previdenza per la gestione del servizio.

I voucher sono stati introdotti in Italia nel 2008, sulla scia dell’esperienza di altri Paesi europei. In Austria si chiamano Dienstleistungscheck, in Belgio titres services, in Francia Chèque emploi service universel (Cesu). Come nel caso italiano, si tratta di tagliandi ideati con l’intento di favorire l’emersione di mansioni tipicamente legate al lavoro nero. Con la differenza, però, che negli altri Paesi europei i voucher sono rimasti relegati nell’ambito dei lavori domestici, dell’assistenza ai bambini, del giardinaggio. In Italia, invece, la legge Fornero ha allargato il campo di applicazione a qualsiasi tipo di attività e committente. E se il voucher nasce per fare emergere dal nero i lavori nei campi e in casa, negli anni la tendenza è decisamente cambiata, come riporta lo studio Cna. A farla da padrone, con il 18,2 per cento dei buoni acquistati, è il settore del commercio, seguito dai servizi (14%) e dal turismo (12,3%). I lavori domestici si fermano al 2,6%, le attività agricole al 7,3%, giardinaggio e pulizie al 7,6%. Un’altra differenza rispetto agli altri modelli europei riguarda il livello di precarietà del lavoro. In questo senso, l’esempio più virtuoso è quello del Belgio. Qui, il lavoratore deve necessariamente essere dipendente di una società di servizi autorizzata: la legge prevede che, nel giro di un periodo da tre a sei mesi, il suo contratto passi a tempo indeterminato.

In Italia, invece, la direzione sembra quella opposta. A maggio, il presidente dell’Inps Tito Boeri avvertiva: “I voucher rischiano di diventare la nuova frontiera del precariato”. E argomentava: “Non sono tanto come i mini jobs tedeschi, cioè secondi lavori. Rischiano di essere l’unica forma di lavoro per molti. E’ un fenomeno preoccupante da monitorare con estrema attenzione”. Eppure, il Jobs act è andato proprio nella direzione di estendere questa forma di lavoro. Con il decreto sul riordino dei contratti, il limite di reddito percepibile da un lavoratore attraverso i voucher è passato da 5mila a 7mila euro annui. Questa somma, in realtà, dovrà essere cumulata tra vari committenti, perché ogni impresa può pagare ciascun lavoratore al massimo 2.020 euro all’anno in buoni lavoro.

E tra gli addetti ai lavori, salta subito all’occhio il legame tra il Jobs act e l’exploit dei voucher. “Si tratta di un aumento molto forte – commenta Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica all’Università Cattolica di Milano e deputato Pd – Si può spiegare con due fattori. Da una parte, il Jobs act ha aumentato il limite massimo di reddito percepibile con i buoni lavoro. Dall’altra, ha ridotto le tipologie contrattuali, come i co.co.pro., e il voucher le sta sostituendo”. Insomma, un passaggio da un rapporto precario a uno ancora più precario. “Con la commissione Lavoro della Camera – ricorda Dell’Aringa – abbiamo sottolineato il pericolo di un’espansione dei voucher che andrebbe contro la tendenza del Jobs act, cioè ridurre i contratti precari a favore delle tutele crescenti. Se questo aumento fosse confermato e il voucher sostituisse non il lavoro nero ma contratti più stabili, bisognerà pensare a ulteriori interventi correttivi”.