C’è un cadavere – il cadavere non d’un uomo, ma d’una politica – sepolto nel giardino di quella che, lo scorso 14 d’agosto, è tornata ad essere l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America all’Avana. E le cronache del tempo narrano come ad interrarlo fosse stato, in un giorno di dicembre dell’anno del Signore 2004, l’allora responsabile della Sezione d’Interessi statunitense, quel James Cason che, due anni prima, era giunto nell’isola nelle vesti di molto zelante interprete della ‘nuova’ politica cubana di George W. Bush. Stando a quelle medesime cronache, il delitto – perché d’un delitto si trattò, anche se non corse una sola goccia di sangue – si consumò, non nell’ombra, come vogliono le regole della letteratura gialla, ma assai ostentatamene, alla luce del molto cocente sole di Cuba ed alla presenza d’una molto selezionata platea di testimoni, nel corso d’una solenne cerimonia che il capo della sede diplomatica Usa volle carico d’inequivocabili simbologie e di perentori messaggi politici.
Quali simbologie e quali messaggi? La bara, anzi, il cofanetto – più esattamente: una scatola nera dallo stesso Cason definita “una capsula del tempo” – conteneva, come vedremo, molte cose agglutinate da una sola, nefasta idea. Ma per comprendere il senso vero di quella cerimonia (e di quel delitto) occorre, prima, fare un passo indietro. Ovvero: tornare al 26 aprile del 2003, allorquando, apparendo nel corso della trasmissione televisiva ‘La mesa redonda’, il ‘comandante en jefe’ Fidel Castro rivolse alla Nazione un discorso per il quale – si può tranquillamente anticiparlo – la Storia non lo assolverà. Chilometrico come d’abitudine, quel comizio televisivo, costellato d’una lunga e piuttosto pedante citazione d’eventi e di documenti, s’apriva tuttavia con una fulminea e categorica affermazione, capace di sintetizzare, in appena una decina di parole, il cuore del problema: ‘Tutto – aveva sottolineato Fidel – è cominciato a partire dall’arrivo del signor Cason…’.
Che cosa, esattamente era cominciato, quando il nuovo capo del SINA (la sezione d’interessi Usa) aveva per la prima volta posato i suoi piedi all’Avana? Il discorso di Castro non lasciava, in proposito, alcun dubbio: il ‘signor Cason’ era il perno d’un complotto il cui fine era quello di ‘provocare una guerra tra Cuba e gli Stati Uniti’. Ed era stato proprio per smontare questa nefasta cospirazione, ordita dal governo Usa in combutta con la ‘mafia di Miami’, che il governo cubano aveva arrestato e poi condannato a pene durissime ‘varie decine di mercenari che tradiscono la propria patria a cambio dei privilegi e dei soldi che ricevono dal governo degli Stati Uniti’ e ‘condannato a morte delinquenti che con una pistola e cinque armi bianche sequestrarono un’imbarcazione di passeggeri nella Baia dell’Avana’.
Fidel mentiva, naturalmente. I tre ‘delinquenti comuni’ – fucilati pochi giorni prima, appena poche ore dopo la conclusione d’un “processo lampo” e solo sei giorni dopo il loro arresto – non erano in effetti che tre poveri diavoli (vittime, in effetti, d’uno dei più infami crimini di Stato commessi nel corso del castrismo) che, al termine d’un molto dilettantesco sequestro del ferry che collega le contrapposte sponde della Baia dell’Avana, s’erano arresi senza aver torto un capello ai passeggeri sequestrati. E tutte le 75 vittime della “primavera negra” erano state condannate a pene durissime – come hanno poi senza esitazioni concluso Amnesty e tutte le organizzazioni che difendono i diritti umani – non per ‘promuovere una guerra tra Cuba e USA’, ma per reati d’opinione. E con l’ovvio scopo di smantellare l’organizzazione che, anni prima, aveva dato vita a quella che era stata la più massiccia operazione del dissenso interno dal trionfo della rivoluzione: il “Progetto Varela”, una raccolta di firme (25mila, una cifra notevole, in uno stato di polizia) tesa a cambiare alcun articoli della Costituzione.
Su un punto, tuttavia, Castro aveva ragione da vendere: tutto era davvero cominciato con il signor Cason. Vale a dire: era stato proprio con l’arrivo del nuovo capo della SINA che la ‘nuova’ politica cubana di George W. Bush aveva preso corpo. Esposta nel discorso che il presidente Usa aveva tenuto il 20 maggio del 2002 nella sede del Cuban Liberty Council (una costola uscita a destra dal corpaccione della vecchia Cuban America National Foundation), quella politica non era, in realtà, che una inebetita accentuazione della vecchia. E intendeva in primo luogo essere (anche su questo Fidel aveva ragione) una ricompensa a quell’esilio cubano che, nell’anno 2000, in Florida, s’era per lui tanto generosamente mobilitata nel corso della lunga e grottesca disputa elettorale contro Al Gore. E in secondo luogo era anche, quella politica, un modo per schierarsi con l’ala più “dura” e più ferocemente legata allo status quo dei cubani d’America (quella, per l’appunto, riunitasi nel Cuban Liberty Council), nel momento in cui nella CANF andavano facendo capolino correnti ‘aperturiste’. In sostanza: più soldi (20 milioni all’anno tutti destinati a disperdersi nei rivoli di mille improbabili appalti, come ben testimoniato dal sito “Cuba Money Project”) e più voce a settori più radicali dell’anticastrismo.
Sorge a questo punto un’ovvia domanda: per quale ragione, convinto com’era che Cason fosse l’epicentro d’un diabolico complotto contro Cuba, Castro non ha preso nei suoi confronti il provvedimento – l’espulsione dal paese – che in ogni parte del mondo si usa prendere contro i diplomatici accusati di complotto? La risposta (una risposta fondamentale per comprendere la natura del ‘cadavere’ di cui all’inizio, nonché quel che fu e che che sarà a Cuba) nel prossimo post…