Piu’ di 400 miliardi di euro miliardi bruciati in Europa in una seduta di Borsa. Trentotto solo a Milano. Il conto, già salato per le Borse europee, arriva a mille miliardi se si considera l’intero mese di agosto. Da Tokyo a New York passando per le più importanti piazze finanziarie del Vecchio continente, non c’è listino che non stia subendo la sindrome cinese. Con gli indici di mezzo mondo che sono andati a fondo come nei giorni dello scoppio della bolla speculativa sui titoli internet. Questa volta però a far tremare i listini non è stato un singolo settore sopravvalutato, ma il timore che l’economia mondiale stia tirando il freno a mano. E che il rallentamento internazionale, partito dalla Cina, possa avere un impatto sulla sostenibilità del debito pubblico dei Paesi Occidentali già alle prese con prospettive deflattive.
Lo scenario complessivo che fa da sfondo ad una giornata nera dei mercati è infatti ben più complesso da spiegare del
tracollo di una sola seduta dei listini internazionali. “Non si può isolare una sola sessione di mercato da una più ampia tendenza cui stiamo assistendo da quando Cina ha deciso di svalutare la sua moneta – spiega a
ilfattoquotidiano.it l’analista francese
Ludivine de Quincerot, componente del comitato investimenti della
Rothschild & Cie Gestion – La decisione di Pechino ha probabilmente fatto credere agli investitori internazionali che il rallentamento dell’economia cinese potesse essere ben più forte delle previsioni. Il risultato è stato una fuga massiccia dei capitali dai Paesi emergenti come la Cina con una volatilità esplosiva che ha travolto anche Europa e Stati Uniti nonostante il fatto che in Occidente le basi dell’economia siano solide e le prospettive di crescita siano rimaste inalterate”.
Ma se il sistema produttivo occidentale è forte, allora come è possibile che il contagio sulle piazze azionarie sia così forte e inarrestabile? “C’è qualcosa che non quadra – dichiara Michele de Michelis, responsabile investimenti della Frame asset management di Lugano – Una correzione al ribasso del listino cinese era nelle attese. Tuttavia non è stato accompagnato da movimenti su beni rifugio come oro o franco svizzero e soprattutto non giustifica l’impatto forte sui mercati europei che dovrebbero invece beneficiare del ribasso del prezzo del petrolio. Mi auguro che le vendite sui mercati asiatici siano sono l’effetto di motivazioni tecniche di investimento. Se non è così, allora il rischio è che dietro le vendite possano celarsi altre questioni. E’ già accaduto nel 2008 (l’anno del crac della banca americana Lehman Brothers, ndr) quando poi si è alzato il velo sulle difficoltà finanziarie delle banche”.
Non resta che chiedersi chi pagherà alla fine il conto del crollo dei mercati finanziari. Difficile dirlo perché la partita è ancora in atto. Di certo se la prospettiva reale è di una crescita mondiale in rallentamento, sarà più difficile per i Paesi occidentali pagare il debito in uno scenario di deflazione. “Esistono effetti leva di cui non è conosciamo bene l’impatto complessivo come l’andamento delle materie prime, l’ampiezza del rallentamento dell’economia di Pechino e la revisione delle stime di crescita di Stati Uniti e Cina. Ma è presto per rimettere in causa lo scenario mondiale” conclude de Quincerot che invita a mantenere la calma. “I mercati sono come dominati dall’ipocondria” come scrive in una nota Erik Nielsen, capo economista di Unicredit spiegando che la tendenza borsistica è il frutto della presa di coscienza dei fattori di rischio macroeconomici da parte di investitori e trader.
Fra le paure maggiori c’è senza dubbio quella della sostenibilità dei debiti sovrani occidentali in un contesto deflattivo. Inutile negare che, in un mercato finanziario iperconnesso, le strategie dei grandi investitori si intrecciano inevitabilmente con gli interessi degli Stati sovrani alla ricerca di un equilibrio nei conti della bilancia commerciale e alle prese con l’esigenza di contenere il debito. Non a caso l’attenzione degli operatori è puntata sulla prossima riunione della
Federal Reserve, la banca centrale americana. Sono in tanti gli esperti pronti a scommettere che, dopo nove anni, la Fed alzerà i tassi per favorire la ripresa dei prezzi. Se così dovesse essere, per i Paesi emergenti si prospetta un impatto rilevante sulle valute e prospettive economiche.
E’ presto tuttavia per fare pronostici:
Fed e
Bce studiano le prossime mosse in una delicata partita a scacchi la cui posta in gioco è la sostenibilità dell’indebitamento pubblico. “A mia memoria i debiti si sono sempre ripagati in passato grazie all’inflazione” conclude de Michelis. Ma ora, con il petrolio in calo e l’imprevedibile variabile delle strategie cinesi, è ancora più difficile immaginare un aumento dei prezzi che mangi un po’ del debito dell’Occidente.