C’è un aspetto importante che il grande clamore intorno al tema dell’accoglienza copre quasi completamente, ed è il punto di rottura al quale sono ormai prossimi uomini e mezzi impegnati nel Canale di Sicilia.
Navi e motovedette depositano di continuo il carico di naufraghi e ripartono appena finito il rifornimento di carburante e provviste. Le unità della classe 300 della Guardia Costiera, impiegate anche a grande distanza e con ogni mare, equipaggiate di pochi uomini e provviste di una rotazione di squadre relativamente limitata, sono ormai vicine allo stress tecnico per numero e concentrazione delle ore di moto, e il loro personale – professionale e appassionato – è quasi al limite delle condizioni psico-fisiche.
La qualità degli interventi è indubbiamente eccezionale, ma eccezionale è anche il numero delle missioni, destinate a non diminuire e se mai a farsi più difficili ora che, conclusa la stagione, peggioreranno le condizioni del mare.
Insomma, l’assenza di una strategia complessiva di questa interminabile emergenza, determina risposte empiriche e dispendio di energie non infinite, e solo la generosità di funzionari, militari, addetti alle forze dell’ordine e volontari colma il vuoto di prospettiva e di informazione sull’entità dei flussi in arrivo e sulla reale capacità (e volontà) di accoglienza nel Paese e in Europa.
Anche per questo si è resa urgente una iniziativa politica nei confronti dell’Onu perché intraprenda la strada diplomatica e militare dell’istituzione di canali umanitari controllati, con la creazione di una struttura allocata in Libia, militarmente protetta, in grado di organizzare e filtrare i flussi (come si fece in Albania nel 1991) per numero, provenienza e destinazione europea dei migranti, con l’impiego di navi appositamente noleggiate per il loro trasferimento.
Soltanto l’apertura di un tale corridoio sorvegliato potrà impedire o limitare gli affondamenti e la tratta dei clandestini, regolare i flussi ma anche avviare la smobilitazione del costoso dispositivo d’alto mare che, avviato con l’operazione Mare Nostrum e proseguito con Triton, non potrà essere ora interrotto senza un’adeguata rete alternativa.
Dopo anni di soccorso costiero, l’operazione Mare Nostrum prese il via dopo l’annegamento, il 3 ottobre del 2013, di 366 persone al largo di Lampedusa. Qualche giorno dopo il naufragio il Sole 24 Ore sostenne la presunta inadeguatezza della Guardia Costiera a svolgere il soccorso nel canale e, quasi immediatamente (il 18 ottobre 2013), partì – con forte eco nella politica e nei mezzi di informazione – la campagna della Marina Militare che avrebbe coinvolto 700/1000 militari e numerosi mezzi aeronavali (una unità anfibia e cinque navi minori, cinque velivoli e droni), oltre alle motovedette costiere già attive.
Il nuovo dispositivo di soccorso fu incautamente portato fin quasi sotto le coste libiche, ciò che ragionevolmente avrà moltiplicato il numero delle partenze ed aumentato la precarietà dei barconi, nella certezza che avrebbero trovato soccorso a poche miglia dalla costa: una iniziativa dagli effetti difficilmente reversibili.
I risultati di Mare Nostrum sono stati molto consistenti. Nell’arco di dodici mesi le unità della Marina Militare e della Guardia Costiera hanno portato in salvo 189.741 persone con 815 interventi, ma con un conto economico molto pesante. Il dispositivo di soccorso costiero (quello cioè imposto dalle norme internazionali) nel canale di Sicilia, aveva salvato nel 2011 circa 50 mila persone al costo, in quell’anno, di circa un milione di euro, mentre la nuova operazione ha richiesto una spesa di circa dieci milioni di euro al mese.
Chiusa fra non poche polemiche il 31 ottobre 2014, Mare Nostrum ha lasciato il passo all’operazione Triton (costo tre milioni al mese a carico dell’Unione Europea) che della prima ha la stesso teatro operativo d’alto mare ma, in quanto missione europea, appare contraddittoria e claudicante, dato che i luoghi di destinazione dei rifugiati restano soltanto quelli italiani.
Un quadro di interventi molto precario che solo la qualità dell’impegno ha saputo tenere in piedi, ma con energie (e conforto dell’opinione pubblica) che vanno esaurendosi e necessitano perciò di urgenti iniziative politiche e organizzative per la creazione di corridoi coordinati con i sistemi di accoglienza degli altri Stati europei e per il ritorno all’assetto costiero del soccorso in mare.